Carlo era uno di quelli che scriveva di continuo, non solo su un foglio o un computer, lui scriveva con gli occhi, nella sua mente, era una caratteristica che mi aveva sempre colpito, lo portava a essere distante da tutto.
Io e Carlo ci siamo conosciuti al liceo, lui non parlava mai, seguiva poco le lezioni, anche con i professori più tosti, quelli di cui tutti avevamo paura; Carlo strisciava, sembrava prendere appunti, fitti, sembrava non perdersi una parola, ma immaginava storie, arricchiva i suoi personaggi, lontano dai concetti e dalla noia che prendeva posto sempre al primo banco. Per me era un genio ed ero onorato per il semplice fatto che mi parlasse, uscivamo per lunghi pomeriggi, senza nulla di vero da fare se non immagazzinare situazioni, volti, sguardi, urla, tutto quello che ci circondava, con Carlo era sempre così, le situazioni si creavano intorno a lui, non organizzava nulla, prendeva il suo zaino e usciva.
Io ero sicuro che sarebbe diventato qualcuno, leggevo quello che scriveva e mi sentivo banale, superficiale, ogni singola parola mi lasciava qualcosa, ogni personaggio era vero, alcuni somigliavano a me e sorridevo.
In ogni storia del mio amico c’era un personaggio ricorrente, un bambino, con i capelli neri e una risata contagiosa, non era mai il protagonista, era un secondario, si muoveva al margine del foglio, sul confine delle parole, ma c’era sempre. Lo consideravo il marchio di fabbrica di Carlo, come se in qualche modo volesse unire tutte quelle storie che scriveva: voleva inserirle in un universo comune.
Il bambino si chiamava Marco, una volta era il secondo figlio del protagonista, un’altra volta era un semplice bambino che chiedeva i dolcetti ad Halloween, altre un osservatore di qualche vicenda curiosa, rideva sempre, ingigantiva tutto.
Carlo oltre a me non aveva amici, non si interessava al resto del mondo, a lui bastava guardare per capire le situazioni. Durante le ore di ginnastica rimaneva seduto, osservava tutte le partite di pallavolo, diceva che attraverso lo sport capiva davvero le nostre personalità; io giocavo sempre e sentivo i suoi occhi addosso, quella piccola macchina da scrivere che aveva in testa batteva i suoi tasti e creava una nuova storia, un omicidio, un amore, una partita, un’amicizia, andava bene qualsiasi cosa.
Certe volte cercavo di porgli delle domande, cercavo di capire come tutto fosse cominciato, non poteva aver iniziato a rubare ogni singolo momento della sua realtà senza un buon motivo, senza un avvenimento importante; era sempre molto generale, diceva che voleva girare un film, diceva che voleva creare dei personaggi veri e per farlo aveva bisogno di immergerli in tutte le situazioni possibili, che un personaggio deve avere mille varietà per essere umano, altrimenti rimane solo un profilo in un libro o in una scena.
Apprezzavo questo suo essere silenzioso, anche se a volte avrei voluto urlare dalla rabbia, cercavo di farlo uscire con altra gente, di fargli conoscere qualche ragazza, ma la sua risposta era sempre il silenzio: veniva sempre, non parlava mai, vedevo solo i suoi occhi immagazzinare tutto, scrivere incipit di storie, creare ambienti, segnare nuove personalità da modellare. La gente mi chiedeva se avesse tutte le rotelle in ordine, io dicevo che era normale, molto timido, che aveva bisogno di tempo per ambientarsi con altri, che era un genio e andava compreso, ma iniziavo a non crederci più nemmeno io.
Mi seguiva costantemente questa idea di stranezza, non capivo come Carlo potesse vivere senza altri amici, mi faceva piacere passare tempo con lui, ma era più noioso, più silenzioso, sempre più un personaggio delle sue storie che un uomo in carne e ossa.
Una volta finito il liceo ci siamo persi di vista, divisi dai nostri sogni e dalle nostre passioni. Una parte di me era profondamente dispiaciuta, perdevo quella scintilla che riusciva a darmi, guardandolo volevo fare di più, sentivo sprecato il tempo che passavo nell’ozio, sapevo che non perdeva un secondo, un respiro e volevo essere come lui; però, quella zona cattiva del mio cervello era contenta, non dover più avere quel peso da portare, quella continua sensazione di richiesta d’aiuto che sembrava nascosta nei suoi occhi.
Un giorno, così simile a tanti altri, mi arrivò una mail da parte di Carlo: non c’era scritto nulla, solo un documento. Mi lasciava una profonda amarezza vedere come si era trasformato il nostro rapporto, dai pomeriggi insieme a una vuota mail.
Mi aveva inviato il suo primo romanzo e il protagonista era un bambino, di nome Marco, con i capelli neri e la risata contagiosa, proprio il personaggio che tanto aveva perfezionato sui banchi di scuola o sulla scrivania della sua stanza.
Lo mangiai in una notte, piangevo mentre lo leggevo, ritrovavo in tante parole, in tante situazioni una parte di me, una parte del mio passato, una parte di quei pomeriggi volati a immergerci nella realtà della quotidianità.
Avevo completamente dimenticato Carlo, convinto dalle inutili cattive parole degli altri, ero stato meschino nell’abbandonarlo in modo lento, senza mai essere sincero, senza mai davvero capire cosa spingeva i tasti di quella piccola macchina da scrivere nella sua testa.
Lo chiamai, lo riempii di complimenti, troppi, dovuti anche al senso di colpa che esplodeva nelle mie parole, lui rispondeva a monosillabi e lo sentivo distante; lo presi in giro dicendo che alla fine si era deciso a scrivere un libro, che girare un film era troppo faticoso e che lui aveva una potenza inaudita nell’uso delle parole. Carlo mi ringraziava, ma non era con me, non ascoltava davvero quello che gli dicevo.
Quando l’ho rivisto eravamo al cimitero, mi aveva chiamato e mi aveva chiesto di vederci lì, non avevo fatto domande, ero rimasto in silenzio come lui era solito fare.
Seduto su una panchina mi sembrò lontano dal mondo, pareva su una navicella nello spazio, ci abbracciammo e il suo corpo era scheletrico, avrei potuto spezzarlo in due.
Mi portò a vedere la lapide di suo fratello, un bambino dai capelli neri e con una risata contagiosa, un bambino di nome Marco, un bambino che riviveva in ogni singola storia del fratello più grande, il bambino che batteva continuamente i tasti della piccola macchina da scrivere nella mente di Carlo.
Non avevo nessun motivo, ma iniziai a piangere per tutte le storie in cui avevo trovato quel piccoletto, per tutte le volte che mi aveva strappato un sorriso, mi aveva dato un senso di continuità, sentivo quasi di conoscerlo il piccolo Marco, il personaggio che Carlo continuava a tenere in vita.
Amai quel suo gesto, invidiai quel suo immenso amore che la morte non era riuscita a sconfiggere, ammirai tutti i suoi silenzi, le sue lunghe immersioni nella realtà: era un genio e non potevo che provare un profondo bene. Il suo inizio, l’alba della potenza delle sue parole, il triste imprevisto che l’aveva allontanato dalla realtà, l’aveva reso un poeta, triste e profondamente solo.
Al cimitero è stata l’ultima volta che l’ho visto, era un fantasma, voleva tornare a non dover più scrivere del fratello, voleva tornare a vivere con lui ed è quello che ha fatto poco dopo il nostro ultimo saluto.
Per anni il suo libro è rimasto nelle mie mail, certe notti lo rileggevo e piangevo, ricordando gli occhi pieni di parole del mio vecchio amico, poi un giorno ho deciso di lasciarlo alla madre e non ne ho saputo più nulla.
Ora vado spesso al cimitero, non amo quel posto, come tutti, ma ho il dovere di far rivivere, almeno nella mia memoria, quei due personaggi, Carlo e Marco, uno sempre silenzioso, l’altro con una risata contagiosa. Certe volte immagino di vedere personaggi simili in qualche vecchio film, buttati sullo sfondo di qualche scena o nelle pagine fitte di qualche libro, ma loro non ci sono mai.
Il compito è solo mio, il difficile compito di portare avanti le loro storie, le loro vite.
Giuseppe Fiore ha 21 anni ed è nato a Matera. Studia comunicazione a Parma. Legge da quando è bambino e scrive da ancora prima, spera di riuscire a trasmettere le sue emozioni. Ha pubblicato il racconto Vecchia macchina da scrivere sulla rivista Smezziamo, e il racconto Cadute da una bicicletta sulla rivista La Seppia.