I
«Papà, papà, guarda, c’è Komòdo!», gridò il bambino additando il nuovo cartellone pubblicitario affisso dall’altro lato della carreggiata, di fronte alla porta aperta della pizzeria.
«Non ci sono draghi in Inghilterra», chiosò il padre dall’interno, senza levare gli occhi dall’impasto che stendeva rapidamente, per la prima infornata del giorno.
Sull’uscio si affacciò Estella, l’unica minigonna under tredici di tutto il pezzo di strada su cui il bambino avesse il permesso di giocare, dalla botteguccia dei napoletani fino alla fermata dell’autobus poco distante. «Ma è proprio lui! Allora esiste davvero, Pip», esclamò Estella.
La bambina, in realtà, si chiamava Cate, come la nonna paterna salutata un anno prima all’aeroporto di Lamezia. L’idea di farsi chiamare Estella serviva a far sembrare un gioco il compito affibbiatole proprio da nonna Catena quando, attendendo e maledicendo il giorno della partenza, aveva insistito affinché la piccola imparasse l’inglese sul primo titolo apotropaico arraffato nella riboccante e abbandonata libreria del figlio del vicino, studente al nord. Era un testo facilitato, in lingua originale e con traduzione a fronte, di Great Expectations: vi spiccava nitido, in copertina, sopra un cielo infilzato tra i campanili di Saint Paul, l’allure di Estella, sotto il corsetto vittoriano color pervinca, in didascalico contrasto col rattoppo ai calzoni di Pip, lo stinto orfano accanto a lei.
Cate avrebbe preferito i giardini di Kensington nella favola di Peter Pan traguardata in edicola oltre la fila tozza dei Chupa Chups.
«Grazie, nonna», disse invece, arrendendosi a Grandi Speranze.
Non troppo tempo dopo, mascherata di passione la storia impostale dal destino, decise di ribattezzare sé stessa e l’ultimo arrivato del quartiere italiano coi nomi dei protagonisti di Dickens.
Pino Pip aveva ricambiato l’onore permettendo a quella femmina dai modi vagamente maschili di giocare col suo drago. E di sedere su una vecchia seggiola della pizzeria che, per compiacere Estella, aveva chiamato Dickens’ chair.
Col drago, Cate si limitava in realtà a far chiacchierare la sua Barbie, perché nessuno poteva tenere in mano il drago tranne Pip. Quanto all’idea di una sedia, appartenuta in passato allo scrittore e capitata chissà come proprio lì, era venuta a Pino pensando a quei ristorantini dell’entroterra calabro dove era finito, due estati addietro, coi nonni di Reggio, e dove c’era sempre qualche presunto scranno di Garibaldi ad adescare turisti compiacenti. O a condire di imprecazioni filoborboniche la controra degli avventori abituali.
«Non capisco perché, se siamo su un’isola, non vediamo il mare» stava chiedendo in quel momento la barbie di Cate a Komòdo, il drago di pezza di Pino.
«Il mare c’è, solo che da qui non si vede.»
«Come l’isola del tuo drago?»
Come i cretti d’intonaco della città dirimpettaia, ingrandita da Morgana, una mattina e poi mai più, sull’orizzonte liquido di Scilla, nel racconto d’infanzia di nonno Mario, pensò Pino.
«Quella è molto più lontana, dall’altra parte dell’Oceano» disse, invece.
Da che aveva memoria, Pino aveva sempre sognato l’isola di Komòdo (o era una trinacria leggendaria davanti a cui scorrevano, specchiandosi, le vite rimaste a sud?). Di fatto, l’unico posto al mondo abitato da una rara comunità di sopravvissuti: quella delle più grandi lucertole esistenti, nonché ultimi discendenti di una specie di varanidi che erano scampati all’era glaciale, testimoniando, per tutti quelli che non ce l’avevano fatta, la possibilità di sfuggire a un destino segnato.
Pino sapeva tutto del gigante verde capace di disseppellire cadaveri umani per cibarsene, e alto anche più di tre metri. E ne collezionava ritagli di foto scaricate da internet allo stesso modo con cui i suoi compagni si scambiavano figurine di dinosauri.
Solo Cate, però, credeva alla sua storia. Per gli altri ragazzini, e soprattutto per Lucio, Pino era solo un bambino strano che giocava con una bambina dal nome inventato e la sua Barbie da femmine. E che credeva nei draghi.
Lucio era il figlio di una famiglia di pugliesi che, nella periferia di Londra, stavano già da due generazioni. Non ce l’aveva davvero con Pino, ma era geloso di Cate e cercava qualunque occasione per screditare il rivale agli occhi di lei.
«Figurati se do retta a un ateo», aveva tagliato corto Cate, una mattina, dopo l’ennesimo attacco di Lucio a Pino.
A Pino venne in mente nonno Mario che gli insegnava a lanciare i sassi a pelo d’acqua, dal bagnasciuga pietroso di Calamizzi, e ogni volta che il disco scuro superava un nuovo record di rimbalzi prima dell’affondo fatale, «questa è scienza esatta» giubilava, «altro che miracoli…». O quando, all’imbrunire, su una Cinquecento arruggiata, costeggiavano la banchina fino all’invaso del molo e, azzittendo il motore, attendevano di sentire, insieme all’amplesso delle onde sulla banchina, il rumore vario delle luci – caronti, yacht, aliscafi, barcarole senza importanza – che bucavano il mare gareggiando con le stelle: “sono gli occhi du Signuri anche per un vecchio miscredente come me”, disse Pino tra sé, citando il nonno.
«Come fai a sapere che è ateo?», le chiese.
«Pensa, non crede in Dio e nemmeno a Babbo Natale.»
«Come nel mio drago?»
«Sì.»
Da quel giorno Pino aveva deciso (senza dirlo) che da grande avrebbe sposato Estella e sarebbero andati a vivere insieme sull’isola di Komòdo.
II
«Sempre appresso a quel pupazzo, tuo figlio. Non parla d’altro. Questa storia non fa bene a lui come non ne ha portato a te.»
Nemmeno Nuccia si era affacciata a guardare quando il bambino, due ore prima, aveva chiesto a suo padre di andare a vedere il drago. Ci era abituata: «Komòdo pesa settanta chili. Komòdo può uccidere un cervo con un solo colpo di coda. Komòdo vede fino a trecento metri. Komòdo, quando dorme, ha le mascelle che sorridono. Lo sai che dice queste cose anche nel sonno?»
«È solo un bambino», aveva sussurrato Corrado, guardando crescere l’ultimo impasto nella terrina. «E poi che c’è di male a credere in un animale che esiste davvero?»
«Ma Komòdo non è solo un animale per noi…»
La moglie, ex studentessa di Belle Arti, conosciuta a Reggio ai tempi dell’Accademia, non gli aveva mai perdonato quella fissazione che li aveva portati a fare i pizzaioli in un anonimo sobborgo di Londra e che stava contagiando anche Pino.
Il pupazzo verde dagli occhi gialli era tutto ciò che restava di un logo di scarpe. Corrado l’aveva disegnato otto anni prima, davanti agli scherzi di Morgana che baluginavano dalla doppia camera del vetro, per un concorso d’idee per giovani creativi. Il bando era stato lanciato da una grossa ditta locale che aveva deciso di espandersi nel calzaturificio e aveva acquistato a tal fine, a meno di metà prezzo, un terreno messo in vendita dal Comune durante un’asta andata quasi deserta. Il particolare che nel consiglio di amministrazione aziendale ci fosse il fratello del sindaco, già indagato per mafia, fu notato solo da una scalcinata redazione online, subito ricoperta d’insulti e minacce di querela.
Ad attrarre Corrado erano stati i diecimila euro promessi al vincitore: una cifra inconsueta per questo tipo di gare. E che non racimolava nemmeno con un anno di lavoro come ghost designer per Young Fire.
Nella prima agenzia di comunicazione della città, presieduta dall’avvocato del sindaco, Corrado metteva a frutto allora, dalle otto di mattina alle otto di sera, un costoso corso per grafici pubblicitari frequentato, subito dopo l’Accademia, con la buonuscita del padre.
«Vedrai, stavolta svolteremo amore», ripeteva più a sé stesso che a Nuccia, lavorando febbrilmente, di notte, al suo progetto. Le sue invenzioni, fino a quel momento, avevano fatto il successo della Young Fire, sebbene senza la sua firma. Quel bando di scarpe era l’occasione per mostrare a tutti chi fosse veramente.
«Tutto sta nell’avere l’idea giusta», era stato il refrain del professor De Luca, attempato docente di corso con il vezzo dei latinismi. «E l’idea giusta, quella che trasformerà il parassita sfigato che siete ora in homo faber fortunae suae, è un monstrum, un grosso essere prodigioso capace di spazzare via, col colpo di coda dell’ingenium, retorica e luogo comune, e soffiare, come un drago, il fuoco sacro della creazione. O, De Bono dixit, del pensiero laterale».
Il Yes we can obamiano in salsa ausonica era apparso sulle prime a Corrado proprio quell’esempio di ovvietà che avrebbe dovuto evitare ma, a forza di sentirselo ripetere, aveva finito per collegarsi in lui all’immagine del grande sauro dell’Indonesia scoperto per caso, qualche mese prima, zigzagando di notte sul digitale terrestre: il drago di Komòdo, appunto.
Quando poi era uscito il bando per il logo, la metafora del varano anti-retorica, o dell’invenzione, si era reificata con l’immediatezza archimedea di tutti i pensieri laterali in un’originale associazione linguistica: se Komòdo come drago era una parola piana, accentata sulla penultima sillaba, il rimando al suo omofono sdrucciolo, còmodo, era immediato e permetteva di accostare il lucertolone proprio a un comodo paio di scarpe con accento sulla terzultima.
In breve tempo, lo schizzo del drago con le scarpe era stato abbozzato e, di notte in notte, si arricchiva di tutti i requisiti richiesti dal bando: layout di stampa, font, disegni vettoriali. E, ovviamente, lo slogan: «Komodo, il drago delle scarpe».
Nuccia, per compiacere Corrado, aveva confezionato la propria versione di stoffa del drago di Komòdo e glielo aveva fatto trovare all’alba sulla scrivania. Con diecimila euro e con la fama del progetto vinto, Corrado avrebbero ottenuto finalmente un po’ di visibilità e, magari, un diverso inquadramento dopo anni di promesse: «Continui così, ragazzo, e vedrà vedrà… nella vita ci vogliono originalità e fede, e lei le ha, le ha», aveva ribadito appena una settimana prima l’avvocato, autografando con soddisfazione l’ennesima trovata di quell’impiegato geniale di cui non rammentava mai il nome.
Finalmente, sognava Nuccia, si sarebbero sposati. Aveva sognato talmente tanto che, per tutto il mese in cui Corrado aveva lavorato al logo di scarpe, aveva scordato di prendere la pillola.
Fu così che, tra una pausa e l’altra del disegno, non si sapeva se stesse davvero nascendo il monstrum del professor De Luca, la grande idea capace di sbloccare le loro carriere. Di certo, proprio in quei giorni, Corrado e Nuccia avevano concepito Pino.
III
«Tre pizze per i signori e una coca.»
Le comande, tra mezzogiorno e le due, si alzavano in piccole torri che Nuccia accumulava sulla penisola, tra l’asfittico forno a legna e la sala destinata agli avventori. I capelli di Corrado, ricci e neri come quelli di suo figlio, sgocciolavano ghirigori di sudore sulla t-shirt bianca con la scritta Italian Pizza sul davanti. Tra i tavolini nichelati, stonava un’unica sedia di legno con i braccioli tarlati e le gambe sghembe.
«Dobbiamo toglierla da lì prima che qualche cliente ci caschi e il proprietario getti la colpa su di noi», stava osservando Nuccia.
Con l’arrivo dell’estate quel lavoro era ancora più faticoso e Nuccia meditava da tempo di mandare Pino in Calabria dai nonni, ad abbrunire fino a tardi sotto il fiato antico delle magnolie; ma la paura del distacco le faceva poi cambiare proposito.
«Alla sedia ci penso io, non buttarla», si raccomandò Corrado.
«Tu non mi ascolti mai», Nuccia sorrise a un connazionale che le chiedeva sempre gli orari degli autobus in arrivo alla fermata lì vicino. «Il prossimo passerà tra poco, signor Giovanni, ma se è pieno a quest’ora tira dritto. Solito panino da portar via?»
Poi continuò, rivolta al marito: «Ti ricordi, Corrado, quando ti avevo detto di lasciar perdere il progetto di Komòdo, ché tanto il vincitore si sapeva da prima del bando? Hai voluto continuare ed eccoci qua…»
«Queste sono per il tavolo due», implorò Corrado passandole le napoletane e le bibite dell’ultimo ordine. «E comunque, quando me lo hai detto, il mio progetto era quasi concluso».
«Hai perso altre quattro settimane, duecento euro di stampa e il tuo lavoro… Yes sir, it’ll take about twenty minutes».
Nuccia sapeva che era sbagliato rinfacciare continuamente il passato, ma proprio non riusciva a contenersi.
«Ce li scambiamo?», la voce di Cate echeggiò infantilmente cattiva dentro la sala, mentre Pino esitava tra la vergogna di essere visto tenere in mano una Barbie da femmina e il timore di perdere la stima della sua migliore amica.
«Via di qua, figghioli… Non si gioca dentro a quest’ora, disturbate i clienti!», gridò Nuccia ricacciando i due piccoli in strada.
Il bando era poi andato come da copione. I diecimila euro erano stati assegnati al figlio dell’avvocato, fresco di diploma magistrale e con nessuna propensione artistica. E il progetto di Corrado rigettato per un vizio di forma.
«Qui manca un codice…» aveva commentato un vecchio giurato rigirandosi tra le mani il disegno del drago. Gli altri anziani, di anagrafe e commissione, annuirono senza verificare e passarono oltre.
Nuccia ricordava di avere personalmente controllato e ricontrollato più volte la documentazione. E, malgrado le perplessità dell’ultimo periodo, quando quei giornalisti le avevano messo in testa il sospetto della truffa, una parte di sé aveva continuato a sperare, se non nella grande svolta immaginata da Corrado, almeno in un nuovo inizio.
Invece, dopo la vittoria del figlio, l’avvocato aveva lasciato a quest’ultimo la direzione della Young Fire, Corrado non era più riuscito a sopportare in silenzio lo sfruttamento cui era sottoposto da anni e a furia di rispondere a quel giovanissimo e arrogante raccomandato che era ora il suo superiore si era ritrovato licenziato.
La delusione l’aveva spinto ad abbandonare la grafica e ricominciare in Inghilterra con Nuccia, ormai prossima al parto, lavorando nel settore della pizza da asporto e del fast food.
«Intanto la sposto in strada», disse Nuccia, spingendo fuori, accanto al bidone dell’immondizia, la vecchia sedia sgarrupata.
«No, signora, non farlo! Quella è la sedia di Dickens!», urlò Cate dal bordo del marciapiede.
«Sempre con queste stupidaggini, voi due…», ribatté Nuccia, mentre Cate cercava con gli occhi quelli Pino, che li nascose nelle fenditure del lastricato.
«Mio figlio è come suo padre: ha troppa fantasia. Pino, vuoi spiegare alla tua amica che questa non è mai stata la sedia di Dickens?», e senza attendere, rientrò in pizzeria, lasciando la sedia sotto il perpendicolo del sole.
«Lucio ha ragione, sei solo un bugiardo!», Cate, con in mano il draghetto appena scambiato, ficcò sull’amico un’occhiata rabbiosa e lanciò con forza il pupazzo verso la mezzeria.
Dall’interno del locale, Corrado e Nuccia sentirono solo il lungo sibilo dell’autobus che frenava all’improvviso, e che si fermava giusto un attimo dopo il draghetto di Komòdo e un attimo prima del corpicino di Pino, gettatosi senza guardare a raccoglierlo. Accorse solo il padre, Nuccia era troppo spaventata per muoversi.
Corrado toccò il bambino: era vivo. Alzò la testa verso il conducente, e fu in quel momento che notò il manifesto: il suo drago con le scarpe ammiccava, in formato gigante, dal cartellone pubblicitario affisso di fronte. Sotto c’era il nome di un nuovo marchio di calzature made in Italy: Komodo. Qualcuno in commissione doveva aver apprezzato la sua idea di logo e deciso di rubarla per vendersela.
«Fucking Italians!», latrò l’autista affacciandosi paonazzo dal finestrino. Pino, però, non sentiva niente: era rimasto accovacciato a guardare il suo drago che moriva, sotto la ruota anteriore di un pullman bipiano.
«Vieni dentro, Pinuccio: te ne farò un altro. Ok?», sussurrò Corrado aiutando il figlio ad alzarsi.
Fu allora che Pino si accorse di avere ancora in mano la Barbie di Cate. Si avvicinò alla bambina ritta in piedi, sul marciapiede, nel suo vestito color pervinca.
«E nemmeno tu sei Estella», disse restituendole la bambola. Poi voltò le spalle e tornò da Corrado.«Fa niente, papà. Non m’interessa più», rispose avviandosi verso l’ingresso della pizzeria: «Sono grande, ormai, per i draghi».
Elisabetta Viti è giornalista pubblicista e insegnante e scrive di cinema su Sentieri Selvaggi. Lettrice notturna di storie per suo figlio Samuele, tra le attività diurne più recenti c’è un saggio di filosofia ebraica per Critical Hermeneutics, e, tra le altre, la silloge poetica Dintorni Lontani, vincitrice del Premio Rhegium Julii Inedito.