1
Il primo cane si mise ad abbaiare nel cuore della notte, una notte ventosa e intermittente. Le nuvole correvano da una parte all’altra del cielo, come se dovessero scambiarsi informazioni urgenti. Nella corsa coprivano e svelavano costellazioni, regolando drammaturgicamente l’intensità delle luci. Questo conferiva al paesaggio tinte a turno più fosche o brillanti di quelle che la notte, per definizione, era solita dare alla campagna, proprio mentre la musica di sottofondo è suonata dal vento e dal latrar d’un cane. Tutto era accentuato, come eccessivo, era già una notte da non dimenticare.
Il secondo cane rispose al primo in una maniera fortunatamente incomprensibile all’orecchio dell’uomo sovrappeso, poggiato al davanzale della finestra, a rimirare questa serie di eventi che incuriosivano il suo cervello poco allenato. Era in piedi, sveglio per colpa di sua moglie; la donna russava ogni notte ma stanotte non era riuscito a prendere il ritmo del suo brontolio regolare. Guardava fuori dalla finestra con uno sguardo ebete che potete facilmente immaginare ma che, per fortuna, non avete visto dal vivo. Il suo cervello-bradipo ebbe una contrazione, repentina come la scarica di un defibrillatore, il suo viso prese un’espressione tenace e anche un minimo di fascino. Si raddrizzò, la canottiera cedette, slabbrata, alla sua pancia molle, si volse verso la moglie, osservandola.
Vide il suo culone mezzo scoperto dal pigiama arrotolato e dalle lenzuola che lui stesso aveva scostato, vide le sue cosce grosse che a fatica mantenevano la bella forma che aveva tanto amato anni prima. La donna russava imperterrita e persino la stanza sembrava satura di quel rumore insostenibile. L’uomo alzò il braccio destro con un inevitabile sballottamento di carni flosce proprio là dove avrebbe dovuto esserci il sembiante di un tricipite e la sua ascella umida luccicò nella penombra della notte. In due passi sgraziati fu di nuovo accanto a sua moglie.
Le vibrò la più bella sculacciata della storia.
Daniela, la moglie, si svegliò di soprassalto con il respiro mozzato e uno spavento prossimo all’infarto. Suo marito la fissava, in piedi accanto al suo lato del letto. Lei sembrava non riprendersi, gli occhi come una calamita attratti dal marito, quasi che non lo conoscesse, e istintivamente aveva ragione. Mario la osservava dal suo solito volto ebete al quale, però, si aggiungeva un sorrisetto sardonico a metà strada tra Jesse James e Harry Houdini. Non faceva nient’altro che fissarla. Daniela iniziò anche a tossire ma tutto questo avveniva mentre le controindicazioni della sculacciata divenivano ormai fioche.
«Ma cosa fai?», fu il suo urlo roco.
Mario tacque. Si mise a sedere sul letto.
«Sei scemo? Mi hai fatto un male cane. Stavo dormendo, imbecille. Ahia…»
«Spiegami per quale motivo hai smesso di dipingere.»
Mario aveva appena parlato con una tale calma interiore che Daniela non poté che chetarsi, zittirsi e riflettere sulla domanda ricevuta. Da fuori proveniva solo il rumore del vento.
2
I due cani avevano smesso di latrare ma molte nuvole si erano date appuntamento presso una zona precisa del cielo. La loro ampiezza stava davvero mettendo un coperchio a qualunque slancio. Mario aveva colto l’ultimo istante possibile. Daniela fissava Mario. Mario osservava Daniela. Il vento continuava a comporre la sua ballata, interpretata dagli alberi, rami e foglie gli strumenti.
«Non lo so», fu la risposta della donna. Ci fu una breve pausa. «Ma che ore sono?» chiese lei, proseguendo come se si fosse svegliata in quel momento.
«È qualsiasi ora. Spiegami perché non dipingi più.»
«Ma lo sai, che domanda del cazzo.»
«No.»
«Mario, adesso?»
«Adesso.»
«Dai, lo sai, i bambini, il lavoro, il mutuo…»
«Risposta del cazzo, degna di una fiction di Canale 5.»
«Io non ero fatta per il mondo dell’arte. Non sono capace di vendermi.»
«Non ci hai provato molto.»
«Amo dipingere ma mi fa schifo il mondo dell’arte, troppi lupi, troppi narcisi.»
«Sicura sia tanto diverso negli altri ambienti di lavoro?»
«L’arte è un’altra storia.»
«Non me la bevo.»
«A questo devi credere, è una cosa che non sai.»
«Ero qui con te in tutti questi anni.»
Daniela tacque, scossa come una zolla di terra ribaltata.
«E allora?»
«Allora cosa?»
«Perché hai smesso, santo dio?»
«Mario, basta.»
«Perché non dipingi più? Devo saperlo.»
«Eri vicino a me ma non mi hai aiutato.»
«Ti sono stato vicino come potevo.»
«Infatti, che ne sai tu? E chissà che cazzo ti sei messo in testa stanotte…»
«Voglio vederti felice, non accontentata.»
«Mario, lasciamo perdere. La felicità è finita tanto tempo fa.»
«Mi fai schifo.»
«Vaffanculo.»
«Butta pure via tutta la passione.»
«Ma che cazzo credi di sapere tu? Taci!»
«Cosa ne so io? Vivere per disegnare, per creare immagini. Cosa ne posso sapere io che non mi emoziono per nulla, che ho la faccia ebete di fronte a tutto? Niente, ma quello che facevi tu rendeva felice chi guardava i tuoi quadri e anche te.»
«Mario, non ne ho…»
«Qui, fuori da questa finestra, c’è un temporale estivo, la cosa più bella del mondo, e io non la so vedere. Tu, brutta stronza, la puoi vedere e disegnare… puoi insegnare a guardare. Io non so niente del mondo. Non vedo le cose, non le capisco, quindi non mi chiedo niente e adesso sento pure che il mio corpo si decompone al pari della mia mente». Mario si prese un momento, si sistemò i radi capelli ai lati del capo. «Hai ragione, non sono niente, se non un impiegato postale del cazzo che tutte le volte che passa il badge per entrare non vede l’ora di poter passare il badge per uscire».
«Questo lo pensano tutti gli impiegati postali, non c’è niente di strano in te.» disse la moglie, sorridendo con metà del viso.
«Ti sto parlando seriamente, Daniela.»
Mario fece una breve pausa, poi riattaccò: «Comunque erano otto anni che non provavi a fare una battuta. L’ultima volta era stata… alla scuola guida di Maria, giusto?»
«Sono diventata noiosa, grassa, prevedibile e… russo.»
«Basta con le scuse. Prendi il pennello e dipingi quello che vedi lì fuori.»
«Mario calmati», le disse alzando la voce e sé stessa dal letto. «Ora vado a fare pipì. Poi ci rimettiamo a dormire e ci pensiamo domani mattina, va bene?»
«Che paracula.»
«Fottiti.»
«Basta.»
«Ma basta cosa, santo dio!», strillò la donna.
«Finalmente una reazione», disse Mario con evidente sollievo.
Daniela proseguì verso il bagno percorrendo con calma il lungo corridoio del primo piano, accese la luce e si sedette sul water. Mario era dietro di lei pronto a incalzarla: «Vedi che non te ne frega un cazzo? Vuoi continuare a vivere questa vita mediocre?»
«Cosa ne sai tu della mediocrità?»
«Lavoro in un ufficio postale: ci sguazzo. Ma ho capito che non si può vivere così. Ci siamo comperati una casa della madonna che non sfruttiamo, non facciamo nient’altro che pulirla nei week end e cercare di sporcarla il meno possibile il resto del tempo. Tutto questo mentre ci nutriamo di cibi dietetici senza perdere un grammo, seduti di fronte alla TV… sempre accesa, ovviamente. E li guardiamo pure quei programmi di merda. Tutto quello che facciamo qui è scandito da un ritmo che non è il nostro. Comanda la televisione: Prima il telegiornale poi la fiction, il programma d’intrattenimento del mattino, quello del pomeriggio, quello prima del tg della sera…»
«Mario, sei stato chiaro.»
«… quello di intrattenimento dopo il tg, il programma sulle coppie, il programma di politica, la fiction rassicurante sulla lotta alla mafia, il programma d’inchiesta a notte fonda e qualche film mediocre strangolato dalle pubblicità.»
«Mario, ho capito.»
«Sì, certo.»
Ci fu un’altra breve pausa. Mario piantò i suoi nuovi occhi in quelli assonnati della moglie: «Peppa Pig.»
«Cosa?»
«La guardi mentre stiri. Ti ho vista, sai? Ridevi pure.»
«E allora?»
«Capisci come ci siamo ridotti?»
«Devo farla, puoi uscire per favore?»
«No.»
«Mi scappa, esci dal bagno.»
«No.»
«Mario vai a cagare.»
«Non posso, ci sei tu.»
«Basta, esci.»
«No, caga, io sto qui.»
«Oddio… Ti è venuto un ictus, dammi il telefono che chiamo l’ambulanza.»
«Fai ‘sta cazzo di cacca e non rompere.»
«Ma muori!»
Daniela si alzò e fece per uscire dal bagno, Mario la bloccò.
«Disegna questa scena. Con lo stile di quel pittore che ti piaceva tanto e che ora è famosissimo… Come si chiama, dai… Quello che stampano su borse e aggeggi vari.»
«Mario basta, dai. Ti faccio una camomilla, va bene?»
«Come cazzo si chiama? Dai… Quello che nel negozietto delle mostre è stampato su mille gadget. Forse lo mettono anche sulla carta igienica.»
«Vettriano. Dai, Mario, lasciami stare». Daniela lo spinse via.
«Ecco Vettriano, quello sì che ha capito tutto…», fece Mario tra sé. Poi cercò di agguantare il braccio di sua moglie ma lei accelerò il passo per imboccare le scale tenendo il marito a debita distanza. Lui riprese, sbuffando: «Mi hai offerto una camomilla. Almeno mi avessi proposto una tisana ayurvedica…»
Sul viso rubizzo di Daniela sbocciò un sorriso intero, per la prima volta in quella notte. Per nascondere la sua reazione s’infilò nella penombra della cucina.
«Disegna questa scena, ti prego.»
«Che scena e scena?», gli concesse Daniela, esausta.
«Un uomo e una donna sono in bagno, lei è seduta sul cesso, l’uomo di spalle le sta parlando. Avanti, fammi entrare in questa scena, fammi capire cosa sta succedendo.»
«Mario hai un’amante?»
«Mio Dio, sei diventata un film di Muccino. Ma vaffanculo!»
Mario tornò in corridoio, aprì la porta in fondo a sinistra e si precipitò in cantina.
Dopo qualche minuto, Daniela si chiuse a chiave nel bagno al piano terra. Sentiva un gran trambusto provenire dal seminterrato. Sospirava e teneva fisso lo sguardo sulle fughe tra le piastrelle. Non riusciva a concentrarsi. A Mario il baccano serviva per rinvenire qualche rimasuglio di tela, qualche pennello masticato, qualsiasi utensile che permettesse a Daniela di disegnare immediatamente.
3
Fuori si stava spandendo uno degli odori più belli del mondo: quello della pioggia. L’aria se ne stava caricando, l’atmosfera era quasi satura. Il vento era visibilmente calato. Le nuvole avevano riempito tutto lo spazio visibile del cielo e avevano assunto il colore del dolore, il viola tetro, reso plumbeo dall’ispessirsi delle nuvole.
Mario canticchiava stonato una vecchia canzone di Endrigo, spostava oggetti inutili e tossiva per la polvere che si alzava all’unisono con la sua ricerca. Amava la sua casa alla follia, se ne accorgeva solo ora, solo ora si rendeva conto di quanto fosse bella, capiente e piena di potenzialità. Si ripromise che dal pomeriggio successivo avrebbe sistemato cantina e taverna per ricavarne uno studio e uno spazio espositivo per Daniela, per i suoi vecchi amici dell’Accademia e, magari, anche per qualche giovane pittore. “Si chiamerà La merda di Mario. L’insegna la disegnerà Daniela. No, non accetterà mai, temo che dovrò provarci io”, pensava.
Mentre rideva tra sé e di sé, si palesò in cucina. Sua moglie, uscita dal bagno, lo trovò con le mani sozze e una busta piena di cose. La televisione era accesa e aveva tinto la cucina di un colore verdognolo, malsano. Mario staccò il televisore dalla presa e lanciò il telecomando fuori dalla finestra. Al suo tonfo corrispose l’abbaiare del primo cane e subito gli rispose il secondo, chiaramente distinguibili nonostante il tamburellare della pioggia sulla folta vegetazione. Daniela rimase in silenzio. La cucina era illuminata dalla luce tenue della cappa sopra i fornelli, il vapore che pigramente si alzava dal beccuccio della teiera era l’unica cosa quieta nella casa che pian piano si armonizzava al diteggiare della pioggia.
Marito e moglie, seduti ai due capi del tavolo, evitavano di incrociare gli sguardi. Dopo un tempo molto lungo, per Mario di attesa e per Daniela di assedio, la donna cedette: «Che cosa mi avevi detto di dipingere?»
«Il nostro tema: perché ci siamo ridotti così. Un uomo e una donna in un bagno di notte. E la questione della merda.»
«Basta dire quella parola.»
«Quale parola?»
«…»
«Non è una parola. È un concetto. Un’idea assoluta. Spirituale.»
«Dimmi la verità, sei fatto di coca?»
«Non ne ho bisogno, mi vado bene come sono, anche se sono una merda.»
Daniela iniziò a ridere, isterica, forte. Poi pian piano il suo riso si attutì per trasformarsi in una risata goffa, come un motore che non parte, che poco a poco divenne un pianto. Una lunga catena di singulti che Mario si mise a contare, scegliendo di non avere alcuna compassione per la moglie. Non c’era spazio per il conforto, non adesso. Mario rovistò nella busta che aveva portato dalla cantina, ne estrasse un pennello ancora morbido, qualche matita smangiucchiata e qualche colore brutalmente secco. Posò il tutto sul tavolo e andò ad afferrare un vecchio blocco, inutilizzato da decenni, che stazionava col suo reticolato di polvere sopra al mobile dell’ingresso, al piano terra, accanto al telefono fisso: «Tieni.»
Le riempì le mani. Daniela lo guardava esterrefatta aggirarsi per casa stracolmo d’energie, lei era immobile, la bocca aperta, il blocco appeso alle mani inerti.
«Fermati», lo implorò Daniela
«Voglio un bicchiere di vino. Tu?»
«No, non posso.»
Un attimo dopo, Mario tornò da lei con due bicchieri di vino e una bottiglia costosa appena stappata.
«Siediti almeno», disse lei.
«Pensa a quel che devi fare, tu», e dopo un sorso si sedette.
La donna aveva gli occhi lucidi. Sentiva dolore dappertutto. Suo marito era stato capace, nel giro di un’ora, di portarla di fronte a uno specchio e accendere la luce su una verità celata da anni. Aveva fatto per lei esattamente quello che lui le aveva chiesto di fare tramite il disegno.
«Mi devi proprio fissare?»
«Sono qui. Vivo anch’io in questa casa.»
«Ti prego torna a letto.»
«Tu sei pazza.»
«Sono in ottima compagnia, allora.»
Daniela prese una matita mezza spuntata. Se ne stette così per qualche minuto, a rigirarla tra le mani, come se non avesse mai visto un utensile del genere.
«Perché hai smesso di dipingere?»
Daniela taceva, fredda come una stufa vuota. Se ne stette muta mentre Mario centellinava il vino e non smetteva di fissare il foglio.
«Hai intenzione di tacere ancora per molto?», insistette Mario.
«Se io sapessi come risponderti non dipingerei.»
«E allora dipingi.»
Il primo cane abbaiò e il secondo gli rispose. La luce del giorno cominciava a farsi palese, nonostante tutto.
Giacomo Rabbi, di nascita bolognese, dopo la laurea in Lettere moderne all’università della sua città, ha preso una bella sbandata per il teatro e si è diplomato all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio d’Amico, di Roma. È un attore professionista ma ha fatto, e fa, uno svariato numero di altri lavori annessi e convessi, mentre legge una montagna di libri, scrive, si allena e cerca di mantenere intero il suo sorriso senza che si strappi del tutto. Scrittore inedito, è traduttore dall’inglese e dal francese per Giunti, nella sezione Young Adult. Vive a Milano con la sua scoppiettante famiglia.