Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali,
dei palazzi, degli arengari; ma dei grandi alberghi,
delle stazioni ferroviarie, delle strade immense,
dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie
luminose, dei rettifili, degli sventramenti salutari.
Antonio Sant’Elia, Manifesto dell’architettura futurista
Se ci sono segnali, lui non li coglie.
Cammina, rapido, un passo davanti all’altro e nemmeno uno sguardo in direzione del mare. E che motivo avrebbe per farlo? È il 1970, una mattina di inizio aprile, ed Enrico sta andando al lavoro. Indosso ha un impermeabile e un abito troppo pesante per la stagione; un abito che ha scelto per la qualità del tessuto ma che gli cade largo sulle spalle, e poi il colore è sbagliato, lo fa sembrare in divisa. Anche il suo volto ha qualcosa della divisa; la faccia di un uomo che è soltanto lavoro, distanza, desiderio di distanza. Cammina e la città attorno gli si rivolta contro come una schiena. Palazzi che sembrano muri. Come Giulia che la notte dorme distesa sul fianco, la testa incassata tra le scapole, gli offre la nuca.
Anche questa notte la bambina ha pianto. Il pediatra ha detto che è normale, non c’è motivo di allarmarsi. Con il tempo i capricci spariranno, l’importante è non cedere sugli orari: tre misurini in cento millilitri d’acqua ogni quattro ore. Questo lo può capire. È scienza: esatta, semplice, razionale. Quello che non riesce a capire è lui, il modo in cui si sente davanti a quel pianto che lo lascia scoperto, più arrabbiato che impotente, una bestia ostile che non trova riposo. La percezione della vita dentro la culla non lo lascia mai. Anche adesso, mentre la mattonata che sta percorrendo si apre su una strada dai marciapiedi stretti, ingombra di leoni minacciosi e ciechi che fanno capolino da facciate di un barocco moderato, borghese – nulla a che fare con le audaci a cui è abituato –, anche adesso la può sentire, il suo cuore che batte, il suo essere ancora soltanto in potenza (come fanno a dire che gli assomiglia? Cosa vedono in lei che lui non vede?).
Veloce attraversa la strada. Due uomini sono seduti sui gradini di una scala malconcia, incastrata tra le spalle di un vicolo. Ma seduti non rende l’idea; piuttosto buttati l’uno sull’altro, cagnacci con le gole riverse impastate di vino. È buio, non saranno neppure le sei, la notte è ancora ovunque e non è saggio passeggiare soli, specie da queste parti, ma Enrico ha bisogno di tempo. Servono almeno quaranta minuti di passo veloce per andare dalla sua casa allo studio; quaranta minuti che non gli impediranno di arrivare comunque per primo ma che almeno serviranno a non attirare l’attenzione del portiere. Ecco, un’altra cosa che prima non esisteva: lo sguardo degli altri. L’improvvisa, cocente certezza che è sottoposto a giudizio e soprattutto: può fallire. Sensazioni che si sono fatte largo come una corrente sotterranea e fredda e che senza che se ne rendesse conto hanno preso la forma della schiena di sua moglie, il pianto della bambina, i pranzi della domenica cucinati da sua suocera e la gentile estraneità dei colleghi.
Fermo in attesa del semaforo raddrizza le spalle; le linee pulite, neoclassiche, della Chiesa della Nunziata – oltre le quali la città si arrampica, una scacchiera di orti trasformati in giardini, strade dalle curve ampie, appartamenti serviti da ascensori chiusi come ostriche in gabbie traslucide di ferro battuto dove donne come Giulia (Giulia bellissima e stanca nella luce del primo mattino; Giulia che trasalisce appena la sfiori; la vestaglia ai piedi del letto, il suo odore) si saranno già alzate e avranno preso in braccio i bambini, preparato il caffè – gli fanno da sfondo. Eccolo lì l’ingegner Losati, direbbe suo padre senza aggiungere altro, con quel suo modo leggero e insieme spietato di chiamare le cose. Come in un giorno di maggio di otto anni fa quando, primo del suo corso e in anticipo di un anno, la laurea appena ottenuta (anche se non quella che il padre voleva, e per questo meno riuscito, meno brillante il suo sforzo) Enrico si è alzato da tavola e lo ha seguito sul balcone. Era un giorno come questo, senza vento, la primavera che esplodeva in ogni cosa. In casa c’erano fiori freschi, il sartù di riso, i bicchieri di cristallo per festeggiare. Fuori la luce era talmente abbagliante da risultare dolorosa.
«Allora», aveva detto il padre, fermo sul bordo della balaustra, entrambe le mani dietro la schiena, «immagino che tu abbia delle aspettative».
Enrico non aveva ancora veramente pensato a cosa sarebbe successo dopo; avrebbe potuto proseguire la carriera in Università o provare un concorso pubblico. La verità è che coltivava sogni più grandi. Nulla di abbastanza concreto da poter condividere con il padre. Si era sentito avvampare.
«Tutti ne hanno», era l’unica cosa che era riuscito a dire.
Ma perché pensare a questo? Che cosa ha a che fare, oggi, quella vergogna con lui? Mentre cammina tra palazzi alti e stretti (ora è dall’altra parte della strada, oltre la soglia dei vicoli che portano Sottoripa) Enrico oppone resistenza. Si àncora alle masse solide degli edifici, all’asse retto dei fronti. Padre terribile che mi stai nella testa, pensa. E tu, madre, incostante e sciocca. Contro di voi alzo i miei muri, strappo le vostre radici per gettare le mie fondamenta.
Cammina, a ogni passo sempre più lontano dall’umiliazione di un’infanzia passata a studiare (il tavolo stretto dietro la porta, le persiane oscurate, le urla e poi le urla di Nino, che è piccolo, non vedi? lo devi aiutare) e intanto la città avanza, un unico slancio di pietra, sabbia e calce fino al mare. Case che crescono sopra le altre, stratificate per secoli fino a inghiottire la luce; una luce (quella, chiarissima, di un’alba di aprile; il cielo terso e soltanto nell’aria qualcosa di strano, uno scirocco anomalo appena percepibile, che incolla la camicia alla pelle) che torna all’improvviso nelle ferite lasciate aperte da una guerra vecchia venticinque anni ma che ancora si trascina nelle rovine dei palazzi sventrati. Ed eccole, adesso, tutte intorno a lui le facce degli uomini che hanno già iniziato a lavorare: dietro i banconi di marmo di via dei Macelli; su per i per i vicoli che da Campetto risalgono verso San Lorenzo. Facce logorate dal tempo, stanche, che spingono carretti fin sul fronte del porto, alle soglie della zona franca circondata dai cancelli, lì dove i portuali fanno colazione in piedi (gambe e gomiti divaricati, come sul ponte di una nave; il gusto del pesce fritto che disinfetta il palato e cancella, almeno per il tempo del riposo, la preoccupazione per un barometro in ripida discesa). E infine il mare, una linea piatta e continua che corre parallela alla nuova strada – un unico nastro di asfalto che Enrico percorre questa volta senza pensare, un tutt’uno con la distanza che lo separa dal lavoro, mentre i tacchi delle sue scarpe di pelle marrone ben lucidata accompagnano il tempo e hanno il suono di un cuore.
Alla Foce il passo rallenta, registra la metamorfosi: davanti non ci sono muri ma una città moderna le cui vene elettrificate dei tram disegnano linee di un destino alla portata della sua ambizione. Ha trentadue anni, solo trentadue anni: è un uomo che sta per avere tutto. Stringe più forte la maniglia della cartella; dentro ci sono i suoi disegni, i progetti che valgono il resto, e per un istante, mentre attraversa la soglia ed entra nell’atrio fresco, pulito del palazzo, la possibilità del fallimento è un’idea ridicola, non contemplabile. Esiste solo la città, il suo dilatarsi in una complessità senza fine; i nuovi quartieri in espansione a Ponente, le vie ferrate, i ponti. Geometrie che conosce (perché ha studiato, perché si è impegnato; e tutto quell’impegno conterà ben qualcosa, deve contare qualcosa) dentro le quali il mare non è che una variabile addomesticata, come l’eccezionale risacca che Enrico ignora e che alle tre di questa mattina ha spinto la direzione del Porto Petroli a ordinare ai comandanti di interrompere la discarica, staccare le manichette e raddoppiare i cavi d’ormeggio. Una risacca che continua a picchiare anche adesso sulle murate di Piazzale Kennedy – un movimento meccanico in assenza di vento, nato di fronte alla città di Marsiglia a conseguenza dello spostamento di un blocco di aria fredda che dall’Europa all’Atlantico, attraverso il canale dei Pirenei, si sta abbattendo sul Golfo del Leone e si propaga secondo le leggi che governano i fluidi coprendo e ricoprendo la terra, quasi un esercizio di volontà dell’acqua – mentre Enrico dice buongiorno al portiere e quello risponde: «Ingegnere ha visto che giornata. Non pare neanche aprile. Viene voglia di lasciare tutto e andare a farsi il bagno».