La prima volta Giada l’ho vista che arrivava al parchetto col cane. Il recinto era occupato da un maschio litigioso e lei si è seduta fuori, sulla panchina dove stavo io. Ci sono rimasto, perché di fianco a me di solito non si mette nessuno. Immagino neppure avesse fatto caso che ero lì, distratta accarezzava il cane in attesa che il maschio rissoso uscisse. Il padrone di quel cane fumava e parlava con una ragazzotta tutta piercing e tatuaggi, muovendo a scatti il collo taurino ogni volta che, immagino, la ragazzotta diceva qualcosa che lui vagamente pensava di approvare.
«Come si chiama?», ho domandato a Giada, «è davvero bello».
Lei si è voltata di scatto, quasi spaventata, era chiaro che solo in quel momento aveva percepito la mia presenza. Allora ha provato a guardarmi male, nello sguardo da adolescente ribelle si celava però un viso d’una dolcezza letale.
«Avrà voglia di correre», ho aggiunto, «è il suo istinto».
Non ci sono state altre parole. Giada si è alzata ed è andata via.
Se hai tempo e gambe la città è piccola e io ho tempo; quanto alle gambe, reggono se a pranzo riesco a mangiare un piatto di pasta. Di solito, dipende, vado alla mensa del tram. La chiamiamo così perché si arriva col 14. L’ingresso è di fianco a un palazzo di cemento e acciaio e la cosa bella è che per vedere il cielo non serve alzare la testa, è sempre seccante torcere il collo, no, basta vibrare le pupille verso i piani bassi e il cielo è riflesso in quel girotondo di cristalli. Degli interni non si vede nulla, ogni idea di cosa accada dentro resta nella fede della nostra immaginazione. Nelle giornate fredde, un inserviente esce col termos di the caldo e risale tutta la coda che, per entrare in mensa, inizia a formarsi prima delle undici. A volte c’è qualcuno di nuovo, altre qualcuno vuol fare il furbo. Ci perdoniamo, le liti vere sono rare, ci perdoniamo perché abbiamo fame e perché la sera è ancora lontana, ci perdoniamo perché siamo noi e siamo le altre mille persone della fila. Il confine che ci separa dalla follia è un capello biondo che fluttua, ma prima di mangiare siamo equilibrati. Piazze di mamme, supermercati di vecchi, parchi con le aree cani. Vado dove mi porta la possibilità di raccattare qualcosa evitando problemi. Non è sempre stato questo lo spirito con cui ho affrontato la vita, no, ho giocato, ma ora, adesso che non appartengo più a niente, perché dovrei andare in cerca di complicazioni? Sì, lo so, è vero, si fabbricano inutili torri quando ci si lascia massaggiare dall’ozio, si modellano idoli sterili, ma al tempo che ero una persona ho fatto il mio, statene certi. Ora che non ho più nulla da aspettare e da aspettarmi, che mi trascino, non è più il momento di farla finita, no, c’ho pensato tutta la vita ma ogni volta qualcosa, forse solo l’abitudine alla sventura, me lo ha impedito; e poi il mio, adesso, è un ozio impegnativo.
Io e Giada siamo diventati amici la volta dopo. Torno sempre nei soliti posti, ve l’ho detto, in più amo ascoltare e lei ha sempre bisogno di parlare. Per Giada sono una specie di nonno volante, un supereroe, e c’è sempre bisogno di supereroi. Il cane si chiama Porpora. È bianconero ma apposta lo ha chiamato con un nome colorato. Il padre di Giada beve, sniffa coca, picchia lei, sua sorella e sua madre. È un violento, stanno bene solo quando per qualche motivo lui finisce in prigione. Giada è triste quando mi racconta del padre, di colpo si arrabbia perché le dispiace per sua sorella.
È più grande di lei. Ha ventidue anni e non è tanto a posto con la testa, così m’ha detto. Giada ripete che il padre insegue Stella e la picchia forte sulle gambe, sulla schiena, dove capita. Anche col mestolo o con un cucchiaio di legno.
«Io piango per lei», mi dice Giada, «se picchia me non m’importa, mi fa solo male, ma Stella no. Lei no».
Mi fa vedere i segni sulle braccia e sulla schiena.
«A volte non vado a scuola, papà dice che se i professori s’accorgono succede un casino».
Mi fa vedere il diario che sta scrivendo. La copertina l’ha grafitata di suoi disegni: orologi, meduse, mongolfiere.
«Io lo odio, però è mio padre. Come faccio?»
Mi fa vedere una foto di lei e lui insieme, ridono, sullo sfondo c’è un lago, le colline, il cielo. Giada nella foto ha dieci anni.
«Dopo le botte, prima di addormentarmi, guardo la foto e mi consolo così. Mi tappo le orecchie per non sentire i lamenti di Stella», dice Giada, «la mamma piange in silenzio invece».
Vorrei abbracciarla ma mi trattengo. Sono sporco, ho addosso i veleni della città e non mi va di lasciarglieli addosso. Sono un vecchio e Giada è minorenne. Sarebbe imbarazzante.
«Cosa mi ha messo a fare papà in questo mondo» dice Giada «se non gli importa niente di me?».
Conosco gente che non sa nulla di me, la osservo e comprendo molto più della punta ghiacciata che uomini e donne lasciano affiorare sulla superficie della città. Io cammino e vedo e sento e annuso. Siamo tutti storie, siamo tutti iceberg. Ho compassione per loro, certo, non posso dirlo, si offenderebbero: la pietà non la vuole nessuno. Tutti si sentono dei grandi re e non possono sopportare d’essere considerati lacrime o polvere o cenere; unguenti buoni a trasformare i pensieri in atti del corpo. Fare l’amore, protendere la vita, evacuare se stessi in un orgasmo di rantoli e muscoli senza più memoria e domani. A volte, se mi gira qualche spicciolo, vado al cinema. Mi prendono i film diretti da Clint Eastwood. Lui lo riconosci subito, da sempre, tutti lo riconoscono. Quanti film stupendi ha diretto? Gran Torino, per quel finale, è il mio preferito, ma anche I ponti di Madison County, Mystic River, Changelling. Million dollar baby l’ho visto una volta sola, mi ha distrutto, arroventato i ricordi. Lui ha la capacità, in pochi minuti di film, di portarti dentro la storia, di farti capire ogni cosa, di appassionarti. E quando ti spiazza tutto ti torna lo stesso, perché sei dentro il film, intrattenuto, ti ha restituito ciò che sei. Il film è la tua vita.
«Avevo un fidanzato», dice Giada, «poi i suoi genitori lo hanno saputo e gli hanno impedito di vedermi».
Porpora corre nel recinto, insegue le orme del vento. Io e Giada siamo sulla panchina, se entro nel recinto i cani mi annusano, è imbarazzante. Intanto non cammino e ho pensieri più semplici.
«I nonni sono tornati a vivere al paese», racconta Giada, «quando c’era- no, papà era più tranquillo».
La città si muove attorno al parco. È una medusa che conta i passi e i mille tentacoli velenosi con cui sfida le ventiquattro ore di ogni giorno si agitano sfiorando i marciapiedi e i linoleum. Le mongolfiere raschiano il cielo. Chi vola ha lasciato a terra le tabelline le equivalenze. Per essere leggeri e cavalcare le nuvole è d’obbligo mollare la zavorra.
«Papà un lavoro vero non lo ha mai avuto, cambiava sempre», dice Gia- da, «quando ero piccola questa cosa mi piaceva, lui mi raccontava sempre cosa faceva e io lo ascoltavo».
Dalla panchina si vede la strada. È un giardino piccolo quello dove stiamo, l’area cani è al centro e tutto è circondato dalle strade per le auto. Vediamo l’ingresso del supermercato, la via che porta alla chiesa, il bar, la pizzeria, più in fondo c’è la buca della metropolitana. Mi fanno pena tutti quelli che si tuffano come topi là sotto. Scendono e scendono, timbrano e passano i tornelli, si sfiorano, scendono e scendono, aspettano sottoterra il treno, il serpente che li trascinerà altrove. È tutta gente che non sa nulla della città. Se per caso la metropolitana si guasta e devono salire in superficie, a una fermata che conoscono solo come nome sulla cartina, sono persi. Non sanno niente.
«L’altra sera a casa è arrivato un tipo, cercava papà ma lui non c’era, mamma allora il tipo lo ha cacciato», dice Giada, «Stella si è messa a correre, era tutta agitata. L’ho presa da parte e abbiamo cantato le canzoni che le piacciono. Mamma dice che dobbiamo lasciare la casa, andare via, forse giù al paese, dai nonni».
I vecchi camminano piano tirando il carrellino della spesa, la bancarella vende le cinture, i borselli e le cover dei telefoni. L’autobus non ha spazio per fermarsi di lato e si ferma in strada, il movimento continuo dei corpi mi rassicura, mi separa dai pensieri, dalla ricerca del senso. Tutto lo spirito che crediamo ci sostenga possiamo solo stimarlo con gli atti della nostra carne, non c’è molto altro da capire. L’anima non è divisa dal corpo.
«Io al paese non voglio andare», dice Giada, «ho tutti gli amici qua ma qua i soldi non bastano, al paese sì, dice mamma».
In genere trovo da dormire al ricovero, comunque se non fa freddo problemi non ce ne sono mai. Vicino alla chiesa del viale dell’aeroporto c’è una pensilina di quelle per la gente che aspetta l’autobus. Ma lì l’autobus non passa più e quindi è un buon posto per mangiare seduto sulla panchetta e per dormirci sotto. Tipo sopra la panca la capra mangia, sotto la panca la capra dorme. Per la barbetta e la puzza un po’ un caprone lo sono, mi lavo, che credete? Non tutti i giorni però. La cosa più triste è che il cervello ha sempre funzionato e sono stati proprio i pensieri a scrivermi il destino. Per esempio abitavo altrove, in una città lontana da questa. Quelli della mia vita passata non sanno più niente di me, anche se spero sempre che qualcuno venga a cercarmi, a trovarmi.
«Io lo odio quell’uomo che cerca papà», dice Giada, «è quello che c’ha prestato i soldi. Mamma si fa scopare da lui per pagare i debiti, e gli fa scopare anche Stella».
La domenica la gente esce dalla chiesa e cammina sotto il cielo, a volte piove e allora le donne e gli uomini aprono gli ombrelli. Altri escono dal bar con i baffi di cappuccio e brioche; gli alberi della via frusciano contro le finestre delle case.
«Io quello lo ammazzo», dice Giada, «giuro che lo ammazzo».
Le auto prima delle strisce pedonali accelerano, dal cortile interno del bar arrivano le urla dei tifosi e la zingara che chiede le elemosina a tre metri dal bancomat, a chi non le da niente, sputa addosso una raffica di parole incomprensibili che hanno tutta l’aria d’essere di malaugurio. C’è profumo di pane e la jeep dei militari sta in doppia fila; il camion che ritira i rifiuti è sulle strisce pedonali col motore acceso. Gli inservienti sono al bar.
«Stella non capisce questa cosa dell’uomo che la prende», dice Giada, «e l’uomo vuole anche me, ho sentito che lo diceva».
Porpora gioca con un altro cane. Si rincorrono, si annusano, ogni loro desiderio lo esprimono col corpo.
«Soldi», dice Giada, «contano quelli. Se prova a toccarmi è il momento buono per infilargli un coltello nel cuore».
In manifestazione la polizia picchia forte coi manganelli. Hanno i caschi, i cinturoni, i denti. E pestano con la voglia di pestare. Inutile affermare poesie inverse. Io glieli vedo gli occhi attraverso la visiera dei caschi d’acciaio che indossano come fossero cavalieri medioevali. La visiera non riflette nessun cielo e quello che c’è dentro, occhi, naso, bocca, lo vedo limpido. Ho pena per loro. Mi capita spesso di finire in mezzo al prorompere delle manifestazioni; sono in giro a camminare e succede, non è che le vado a cercare. Le manifestazioni sono fiumi che prima o poi rompono gli argini. Gli argini sono la polizia. Io che sto nella città tutto il giorno, in strada, sono il testimone. Fino a quando pestano disoccupati o studenti o pazzi, va tutto bene, ma se per caso, come è accaduto la settimana scorsa, per sbaglio un celerino pesta un giornalista, poi è un casino. Il giornalista, oltre a scriverla, si prende la prima pagina di tutti i giornali. La cronaca della manifestazione passa in secondo, terzo, ultimo piano. Contano solo le dita fratturate del giornalista, le sue costole incrinate, le sue ecchimosi. Partono le scuse del questore, i comunicati redazionali, i fascicoli aperti dalla procura. Per quel ragazzo in coma, invece, non hanno aperto niente. Solo la sua testa è stata aperta dalle botte. Sono andato in ospedale, volevo salutarlo, non lo so perché, tanto non ho niente da fare, ma mi hanno buttato fuori: non sono un parente, non sono nessuno.