Gennaio non è il mese ideale per cambiare vita, è l’inizio dell’anno ma non possiede forza simbolica: l’anno lo facciamo iniziare sempre a settembre. Settembre ha troppo potere, grande fermento. Invece a gennaio puoi combinare qualsiasi magagna senza che nessuno se ne accorga. Gennaio e settembre, in portoghese si dice setembro e janeiro, ma puoi cambiare le lingue la storia è sempre la stessa.
Quel gennaio decisi di cambiare la mia vita, nonostante sia questo un mese più propizio per continuare a fare ciò che si stava già facendo a settembre. Specifico che, nella mia mente infantile, cambiare vita significava sempre la stessa cosa: licenziarmi, svincolarmi dagli obblighi, e dedicarmi a un’attività anomala, possibilmente solitaria. Non sto parlando di quell’occupazione superflua che è, o è diventata, la scrittura.
In quel caro mese di gennaio, come dicevo all’inizio, al cinema Monumental di Lisbona diedero una programmazione straordinaria di vecchi film di Wim Wenders, restaurati e riportati sul grande schermo. Il biglietto costava pochi euro e la sala era sempre semivuota. Rividi Lo stato delle cose, o lo guardai per la prima volta, Paris, Texas, Il cielo sopra Berlino, il documentario Appunti di viaggio su moda e città sull’opera dello stilista Yohji Yamamoto. Di alcuni film feci addirittura il bis, durante la proiezione di altri, invece, me ne andai prima della fine: credo che lo feci per stanchezza, non per altro.
Sembrerà strano, ma fu dopo quelle proiezioni che decisi di lasciare Lisbona. Io credo che fare un’esperienza del genere in questa meravigliosa città abbia un valore unico. Non voglio dire con questo che uscire da un teatro o un museo o un cinema a Roma o Mosca non sia un’esperienza altrettanto singolare; ma farlo a Lisbona, con quel cielo sempre presente, la sua luce invadente, è diverso. Ogni volta che uscivo dal Monumental, infatti, vagavo per le strade come accecato dalla città che ritornava a palesarsi dopo la proiezione dei film restaurati di Wenders. Sui marciapiedi temevo di essere addirittura derubato e ogni volta, per rimettermi nel tunnel della metropolitana, facevo una strada diversa: come se non riconoscessi il percorso. Ero disorientato e la colpa era del cinema, dei film di Wim Wenders, siano questi ambientati in Germania o Portogallo.

Quel mese di gennaio frequentai solo Pedro, il proprietario della casa che affittavo nel delizioso quartiere di Alfama. All’inizio, un anno prima, pagavo quattrocentocinquanta euro d’affitto al mese.
Poi, col tempo e l’amicizia, arrivammo a trecentocinquanta: cifra che mi risultò particolarmente comoda per la situazione in cui mi trovavo.
Una mattina, dopo che raccontai a Pedro i miei problemi all’uscita del cinema, questo mi portò da un dottore che si trovava a Oriente. È troppo bello quando gli abitanti di Lisbona dicono la parola Oriente: servirebbe un audio per apprezzare la profondità e la poetica della fonetica. Che poi con questa parola non si indica altro che la zona est della città. Quando lo dicono a Napoli o a Berlino, ti viene un prurito sulla pelle, invece a Lisbona ti viene voglia di partire, come se quell’Oriente azzurro ti avvicinasse davvero alla Cina o al Giappone.
Ad ogni modo quel dottore escluse un problema neurologico, che era il timore del mio amico e padrone di casa Pedro, e quando ebbe finito restò a fissarmi per qualche secondo mentre si grattava le mani pelose, diceva: «Está tudo bem?». Lo so che è solo un intercalare, un modo di dire, ma il tizio era proprio irritante, con quella strafottenza tipica dei medici quando ti dicono che non sei pazzo.
La sera festeggiammo la buona notizia con Pedro. Comprammo una bottiglia, poi andammo a sentire la Samba: il Fado era un’opzione che consideravamo solo in presenza di belle turiste. Durante quella serata Pedro mi spiegò che a breve avrei dovuto lasciare la casa, che con l’arrivo dell’alta stagione avrebbe potuto guadagnare in cinque giorni ciò che io gli davo in un mese. Dissi che ero d’accordo, che entro la fine di gennaio sarei andato via. Ma quello rispose che sarei potuto rimanere per tutto il mese di febbraio, se ne avessi avuto bisogno, qualora non avessi avuto un altro posto dove andare. Pedro era proprio un amico.
Al mattino ci svegliammo in hangover e con le gole secche. Stavamo seduti sul divano, ma sulle nostre ginocchia non c’erano le ragazze, quelle stesse ragazze che, l’estate prima, ci avevano abituato a notti brave, epiche e spontanee. Io e Pedro diventavamo malinconici senza ragazze. Non ci prendevamo cura di noi e crollavamo negli abissi creati dalle nostre fragili menti. Cinema d’autore, buona musica e poesia. Ma in fin dei conti eravamo un portoghese e un italiano, tutti e due con una croce d’oro in petto, e la voglia di scopare e arricchirci con la gentrificazione turistica. Lo vedevo così, giù di morale su quel divano, e allora prendevo la sua Yaris grigio metallizzato e lo portavo in giro senza meta, quasi sempre su strade che lambivano il Tejo, la cui visione ci chetava e ci faceva capire che domani sarebbe stato un altro giorno. Un altro giorno per scopare, bere, arricchirci: un altro giorno per partire.
Quando affrontai il tema della mia partenza Pedro si fece cupo. Buttò giù il seggiolino della macchina e, fissando il tettuccio con le mani dietro la nuca, incominciò a parlare di città e nazioni in cui sarebbe potuto emigrare. Io lo facevo parlare, ma lo sapevo che alla fine non avrebbe lasciato mai quella prigione di cielo, la possibilità di ricavare, in estate, almeno tremila euro al mese da quel mezzanino nel delizioso quartiere di Alfama: forse il più antico quartiere di tutta la penisola iberica. In quelle giornate di gennaio, che per altro erano calde ma piovose, così miti che temetti il ritorno delle blatte, che in spagnolo si chiamano cucarachas ma puoi cambiare le lingue ma la storia è sempre la stessa, parlammo di come cambiare città per un’altra; arte e disciplina in cui Pedro si dimostrava incapace: era lusitano e sapeva solo come ritornare.
Mentre cenavamo in casa, domandai a Pedro che cosa avrebbe fatto con quelle blatte, quando nell’appartamento ci sarebbero stati dei turisti francesi o austriaci. Lui mi guardò per qualche secondo, fece una strana smorfia con la bocca e poi ritornò a ingozzarsi. Ritornai anche io con la testa sul piatto e interpretai quella smorfia in questo modo: francesi e austriaci non si preoccupano delle blatte, o forse le blatte non si sogneranno mai di venire fuori quando ci saranno francesi o austriaci che, in quattro giorni, spendono ciò che un lavoratore portoghese può spendere in quattro mesi.

Lasciai quella casa il giorno di San Valentino. Il quartiere odorava di pioggia, ma anche di arancio, limone e bucato. Pedro veniva a casa con qualche nuovo potenziale inquilino che avrebbe affittato fino all’inizio dell’estate. Veniva una volta ogni due giorni, e quanto i visitatori erano ragazze si intratteneva a fare commenti e illazioni, a immaginare notti che resteranno pura immaginazione.
C’è da aggiungere un’altra cosa sull’amicizia tra me e Pedro: eravamo due persone che vivevano in idiosincrasia con la nostra epoca. Avevamo telefoni poco intelligenti, profili sui social network meno attivi di una lapide, amavamo le sale cinematografiche e preferivamo socializzare alla vecchia maniera; tra bar, piazze e belvedere. Non scrivo queste cose per divagare o per idealizzare il nostro atteggiamento. Voglio dire che aver lasciato un biglietto sul tavolo della cucina con un indirizzo, non è un rigurgito romantico o un goffo espediente narrativo, ma solo la conseguenza di quella nostra amicizia che viaggiava tra cabine telefoniche e taccuini con cui volevamo impressionare le donne. La notte prima di andare via passai almeno un’ora a fare e rifare quel bigliettino con il mio nuovo indirizzo:

Calle Desengaño n 29, Madrid.
Piazzetta delle Vergini n 1, Palermo.
Calle Garibaldi n 111, Buenos Aires.
Rue des narcisses n 19, Montpellier.
Boddinstraße n 2, Berlin.
Rua do Bomfin n 17, Porto.
Vico delle Fate a Foria n 1, Napoli.
Aristotelous n 12 B, Athina.

Alla fine gli lasciai un indirizzo di Milano. Un indirizzo che non aveva nulla di poetico e che, su Google, coincideva con una finanziaria di dubbia moralità. A fianco al bigliettino lasciai i due mazzi di chiavi e le fatture dell’elettricità che avevo pagato. Il giorno dopo partii senza dire niente a nessuno, dicendo bugie su dove ero diretto, come se avessi commesso un crimine atroce.
Quando si cambia città per un’altra, ma questo l’ho capito con il tempo, si salutano le persone care. Non importa che siano tossici, artisti falliti, proprietari fannulloni, poetesse isteriche, alcolisti che parlano le lingue, avventuriere che fanno i pompini con i denti, laureati che lavorano nei call center: si salutano e si cerca di restare in contatto, si fanno le cosiddette promesse da marinaio, si aumentano i debiti che è sempre di buon auspicio per il futuro: l’arte di cambiare città per un’altra è l’arte di saper fallire.
Quando lasci una città e poi ti viene voglia di scriverne, sentirai la mancanza di tutte le persone che hai conosciuto, e ti mancheranno le piazze, i porticati, gli scorci, i vagoni maleodoranti della metro, il tram sempre pieno, i bar, i locali, le mura delle camere da letto in cui ti sei svegliato, l’odore del sapone che trovavi nei bagni degli uffici in cui hai lavorato. A cambiare una città per un’altra mi sono reso conto che devo scrivere delle persone che amo e ho amato, che poi sono quelle che devono sempre perdonarti qualcosa.
Ti saluto adesso Pedro, ti stringo in un abbraccio che non ti diedi in quel malinconico mese di gennaio, ma anche febbraio. Mi dispiace ma non sopportavo quando bevevi il Cognac la mattina, mettevi le mani nelle borse delle turiste, o fumavi l’oppio nel ripostiglio della casa che tu stesso mi affittavi. Questo racconto l’ho scritto pensando a te, per qualche ragione sono partito dai film di Wim Wenders: ci sono ancora a Lisbona sale che danno pellicole del genere?


Antonio Panico è nato in provincia di Napoli, nel 1986. Si è laureato in Scienze politiche presso l’Università Orientale di Napoli. Ha avuto diversi riconoscimenti presso alcuni premi letterari a cui ha partecipato con romanzi inediti. Suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste letterarie Carie, L’Ircocervo, L’irrequieto e Risme. Cura il blog: https://settepazzi.wordpress.com/