Due giorni dopo mi mandano in centro. Una palazzina degli anni settanta, di fattura pregiata: l’ingresso è inutilmente esteso, zeppo di saliscendi e vetrate in cristallo. Due grandi vani, un tempo portineria, sorvegliano vuoti l’accesso al palazzo mentre si gonfiano di polvere. Salgo nell’attico. Cammino per molte stanze, tappeti, litografie, arte orientale che sembra importata quando ancora l’arte orientale non andava di moda. Cammino a lungo, mi tolgo la giacca, il sudore attaccato alla schiena, la schiena incollata alla camicia, arrivo in un salone dall’ampia vetrata. La strana luce del pomeriggio ruba i colori alla città, o forse è la prospettiva, ma il proprietario non la guarda, è steso sul pavimento, le gambe divaricate, la testa amputata da un colpo di fucile, l’odore acido nell’aria. Sembra una doppietta calibro dodici, decorazioni fini sulla bascula, incavata forse a mano da un artigiano della valle. Il medico legale sta già compilando la scheda: morte per arresto cardiocircolatorio. In piedi accanto a lui una signora, che stona con l’arredamento. È la donna di servizio, dice l’uomo coi baffi, l’ha trovato lei. Me la porto in cucina.
Vede, il signor Boniperti era una persona molto sola, ma non avrei mai pensato che arrivasse a tanto. Viveva ritirato da quasi cinque anni, da quando la signora, povera signora Giulia… Un male brutto, al fegato, si sapeva da subito che era grave ma per un certo tempo era migliorata. Il signor Boniperti sembrava rinato, ma era una falsa speranza. Mia nipote, che lavora come infermiera al Policlinico, me l’ha spiegato, è una cosa che succede, sembra che il corpo reagisca e invece si sta solo preparando alla fine. Succede. E così la signora Giulia se n’è andata e il signor Boniperti non viveva più, ha perso dieci chili, almeno, non vedevamo una via d’uscita; poi il tempo ha coperto il dolore, sembrava andare meglio, sembrava, anche se non era più quello di una volta. Finché due mesi fa è svenuto, l’hanno portato in ospedale. Niente di grave ma gli hanno trovato una piccola complicanza al fegato, ogni settimana doveva seguire le terapie, una, due, anche tre volte, ogni settimana. Proprio ieri me ne aveva parlato, povero signor Boniperti, non aveva paura di andarsene, mi ha detto, non l’aveva, ma tornare di continuo in quel reparto, lo stesso dove portava la povera signora Giulia, dove lei è morta, questo non lo sopportava più.
Mentre esco l’uomo coi baffi mi ferma. Quel tipo messo bene, dice, quello con la barca, le moto, le macchine sportive. Io annuisco. Si è capìto, chiede, perché l’ha fatto? No, dico, e torno in ufficio. Il piantone è seduto, io cammino svelto ma quello grida. Era omicidio? chiede. No, rispondo senza fermarmi e salgo. Ma resto poco; mi sciacquo nel bagno di servizio e raggiungo Adele. Lavora in gelateria, ho mangiato tre coni, che non mi piacciono, per conoscerla. La recupero sotto casa dei suoi. Non le ho nemmeno chiesto l’età, però è maggiorenne, ha la patente. Beviamo qualcosa e l’abbraccio all’uscita dal locale. Andiamo da te? chiede. Non posso, rispondo, non ho una casa. Lei ride e sono obbligato a spiegarle che alloggio in caserma, che sono arrivato da poco in città, e dovrei aggiungere che non posso andare in albergo perché gli agenti di piantone si annoiano, e leggono le schede alloggiati che mandano i portieri di notte, e se scoprono il nome di un collega poi lo sa tutto l’ufficio. Quindi dove andiamo? chiede. Guido fino alla periferia, nel parcheggio di un centro commerciale in costruzione. Mi sale sopra, di schiena, ha un tatuaggio. Come lo conosci questo posto? chiede. Roba di lavoro, rispondo. Lei continua a muoversi e io vengo. Si appoggia, è sudata, si attacca, le scosto i capelli bagnati dal collo. Ride. Quando sei arrivato in città? chiede sbuffando. Sei anni fa, rispondo.

Lunedì mi chiamano sotto al viadotto della tangenziale, quello accanto allo stadio, quello alto. Arrivo tardi perché ho dovuto lasciare la moto in officina. Il medico legale ha già fatto. Mi saluta, porge il foglio di carta carbone, arresto cardiocircolatorio, e se ne va. Una ragazza si è lanciata nel vuoto, ha colpito la striscia di asfalto sporco e la scatola cranica si è rotta; la zona da cinturare è molto ampia. Qualcuno ha visto la caduta? chiedo. Scuotono tutti la testa. Guardo in alto e il cielo si confonde col viadotto. Voi state qui, dico, io salgo a controllare. Deve pur essere arrivata lassù in qualche modo, penso, e mi arrampico dalla balza e a metà dell’ascesa capisco che avrei fatto prima in auto, girando largo dietro allo stadio, fino dall’imbocco della tangenziale, intanto nell’aria si mescolano i gas di scarico e il profumo del verde, ma arrivato in cima, sudato, graffiato, con le terra infilata sotto ai calzini, scovo una vettura parcheggiata nella piazzola di sosta. L’asfalto diffonde la sua temperatura insostenibile. Raggiungo l’auto, aperta senza chiavi. Trovo la borsetta, dentro ci sono le chiavi, il portafoglio e il cellulare. Sedici chiamate perse, tutte dalla madre. Sudando guardo la carta d’identità e trovo l’indirizzo: questa sarà la parte peggiore. Piange a lungo, disperata, e alla fine devo chiamare un medico per sedarla. Il fratello non piange, è visibilmente alterato. Ha idea del perché sua sorella…? Non devo finire la domanda. La colpa è di quel porco, grida, ma io lo ammazzo. Non dica queste cose di fronte a me, per favore, e mi spieghi. Si convince. Mia sorella l’aveva conosciuto in piscina, Giada si allenava per le gare di lunga durata, in mare, era alta e filava come un delfino. Quello stava sempre sul bordo della vasca, a fare non so cosa, forse cercava solo ragazzine, millantava un passato nella pallanuoto, riserva della nazionale, diceva lui. È iniziata così. Poi Giada ha scoperto ch’era sposato, è crollata, ma lui ci ha messo una pezza, l’ha portata a sciare. Io l’ho saputo quando è tornata. Mi ha raccontato tutto, ha aggiunto che lui avrebbe lasciato la moglie, ci credeva. Quante sciocchezze. Infatti la moglie l’ha smascherato, ha saputo di Giada e l’ha obbligato a troncare. Me l’ha uccisa, capisce?, quel porco me l’ha uccisa. Capivo. Torno in ufficio, il piantone è sempre lì, ma prima che parli lo anticipo. No, dico, è suicidio, e salgo.

Il martedì chiamano presto, devo intervenire nella zona pedemontana, il vecchio quartiere di ferrovieri e pensionati. Un appartamento troppo stretto. Tutti urlano e non si respira. Una donna anziana mi afferra il braccio e la seguo in cucina. Mio nipote si è chiuso in camera sua, ieri sera, e non risponde; siamo preoccupati, è un ragazzo particolare. Studio gli altri parenti dallo stipite della porta, ancora gridano: quella dev’essere la madre, l’altro il padre, e la ragazza giovane una sorella, o fidanzata, il loro sudore satura l’ambiente. Il collega sta prendendo a calci la porta e avrebbe già dovuto sfondarla, è solo un infisso interno, quindi la tecnica è sbagliata. Lo scosto e mi appoggio con la spalla; poi arretro e abbatto il peso, una volta, due, qualcosa si muove, sento che cede. L’aria è pesante e mi brucia i polmoni fiacchi. Ci sono dei mobili, dico, e intanto ansimo e spingo ancora. Quando entro lo vedo sul letto, un sacchetto avvolge la testa. I famigliari vorrebbero invadere la scena, premono, la madre è accanto a me e quando vede i piedi, immobili sul materasso, grida. Gridano tutti. Teneteli fuori! grido anch’io, e i colleghi sembrano svegliarsi. Nonostante la confusione tolgo il sacchetto dalla testa, gesto superfluo, il ragazzo ha un colore infelice.
La situazione si è calmata. I parenti vorrebbero entrare, dice un collega. No, rispondo, e torno a studiare le carte. Il medico legale non è ancora arrivato. La documentazione del ragazzo è corposa, i ricoveri nel reparto psichiatrico, il centro diurno di sanità mentale, le prescrizioni di farmaci contro le psicosi. Fatico a leggere per via della lampada troppo debole, e mi squilla il telefono. Chiamano dall’aeroporto. Guardi che deve fare almeno tre lanci, dicono, entro la fine dell’anno, altrimenti le scade la licenza. Mi organizzo, dico, e arriva il medico. Impiega poco. Arresto cardiocircolatorio, dice, e io torno in ufficio. Dalla porta carraia studio il corpo di guardia, non c’è nessuno. Mi avvio verso le scale ma dal bagno spunta il piantone. Era omicidio? chiede. No, rispondo. E salgo.