Arriviamo al canile ch’è buio. Con la mia macchina. Lei ha venticinque anni ed è molto magra, si vedono le costole, lavora come segretaria e le piace il teatro. Cominciamo in auto ma è torrido, finiamo sul cofano, devo togliermi la camicia, la butto sull’erba e le zanzare mi pungono schiena e natiche. Vengo e le mordo una spalla ossuta. La pelle è scivolosa. Non sapevo ci fosse un canile da queste parti, dice, come l’hai trovato? Roba di lavoro, dico. La prossima volta, dice, mando la bambina dal padre e sali da me. Tu non hai figli vero? chiede. No, e raccolgo la camicia.
Per due settimane tutto tranquillo. Riesco ad allenarmi più del solito e decido di salire sul ring per incrociare un paio di guanti. Ma sono troppo lento e il ragazzino che ho davanti, senza tecnica, schiva i ganci e non sente i montanti. Chiedo tempo battendo i guantoni e torno all’angolo. E per fortuna che non fumi, dice l’allenatore sorridendo. Vado in ferie a fine mese, dico, in montagna posso correre un po’.
L’infermiera mi guarda. È un bel posto qui, dice, molto romantico. È solo un laghetto, rispondo. C’è anche il pontile, dice, è carino; non lo conoscevo, come l’hai trovato? Ti dà fastidio che sia un posto romantico? chiedo. È che non me lo aspettavo, da uno come te, pensavo mi avresti portato al motel. Sorrido. Non ci vado nei motel, dico, e non le spiego delle schedine alloggiati e dei piantoni, della noia e della curiosità. Quindi, chiede, come l’hai scovato questo posto? Roba di lavoro, dico. Lei allunga la mano fino al ginocchio, infila un dito nell’elastico delle mutandine, vorrebbe forse rimetterle a posto, ma le blocco il polso e la spingo contro il sedile. Non si lamenta.
Giovedì mattina mi indirizzano verso una mansarda, a metà fra la parete rocciosa e il mare. Disordine, sporco, buio. Ma la vista, dai lucernari, copre tutta la baia, si vedono gli schizzi di schiuma sulle rocce e i versanti coperti di pini. Il cadavere è nella vasca da bagno, l’acqua ormai fredda è rossa e opaca e bisognerà aspettare la scientifica, e il medico legale, per vedere lo stato del corpo. Arrivano tardi e lavorano con lentezza. La mansarda è troppo afosa. Chiamatemi quand’è sul pavimento, dico, e aspetto sul balcone. Guardo le strade accalcate di auto, il sole riflesso dalle lamiere di auto e camion e i clacson si coprono l’un l’altro. Il profumo della salsedine arriva a tratti, col poco vento, poi mi chiamano. L’acqua ha tenuto le ferite pulite, dice il medico, molte ferite, sul torace e le cosce, alcune abbastanza profonde da sputare ancora sangue nonostante lo svuotamento venoso e la mancanza di pressione; manca un piede, ma è una mancanza già antica; e poi due ferite lacerate, slabbrate, dal polso al gomito, quella sul braccio destro è addirittura passante. Si è massacrato, conclude il medico. Ha fatto tutto da solo? chiedo. Il medico allarga le braccia e io raggiungo la cucina. Nel giaccone trovo il portafoglio: sessantacinque anni, professione pittore. Sul comò accanto all’entrata, la bolletta della luce, piegata in tre, e sopra la bolletta un mucchietto di banconote e monete, le conto, la somma esatta preparata in anticipo e mai pagata. Smuovo i cassetti e spuntano boccette ovunque, ipnotici più che altro, e bozzetti a carboncino e sanguinella. Niente quadri, avrà uno studio.
Li ha distrutti, dice l’unica parente che trovo, una cugina che non lo vede da mesi. È sempre stato sul baratro della depressione. Ricordo quand’era un ragazzo, già passava le giornate estive fissando una roccia, oppure una fontana, e non parlava, non parlava per settimane. Ma era bravo con tutto: olio, tempera, perfino con l’acquarello. Anche se erano così tristi i suoi quadri. E dire che faticava a mettere mano ai pennelli, ci sono stati anni, anni interi, nei quali non ha prodotto nulla. E poi quel primo tentativo. Quale? chiedo. Quasi dieci anni fa, si è buttato sotto al treno, una cosa pazzesca, se ci pensa, ma lo spostamento d’aria l’ha allontanato dai binari e l’ha salvato, tranne la gamba. Ha perso il piede, continua, e stava morendo dissanguato, l’ha trovato un ragazzo che andava a pescare. Torno in ufficio, non ho preso il referto medico legale, evito il piantone, entro dalla porta antincendio, scendo in archivio. Il fascicolo c’è, nove anni fa, tentato suicidio con lesioni.

© Francesca Zanette

Avevo conosciuto Nadia al corso di subacquea. Non l’avevo più rivista. Che fine hai fatto? chiede, ma lo sai che ti guardavo a ogni lezione? Volevo farmi notare, dice, e tu niente. Io le tocco il seno nudo, sia in alto che in basso, di sicuro lei preferisce in alto. Ero concentrato sulle immersioni, dico, e dopo il corso sono stato un po’ preso. Ci rivediamo? chiede. Magari quando torno. Dove vai? Montagna, credo, qualche giorno di ferie. Non hai ancora preso casa, dice. Già, rispondo, forse non voglio sentirmi legato a questa città. Il mio seme le cola sulla coscia e da lì imbratta il sedile dell’auto. Ma è la sua auto, quindi non lo faccio notare. Che strano qui, dice, passano un sacco di treni. Sì, dico, è un bel posto, e le appoggio la testa al seno.
A fine mese mi contattano dalla segreteria, devo andare in collina. Passa prima dal dirigente, dicono, e io busso. Auguri, dice il dirigente. Non rispondo. Accidenti, ma si sono sbagliati? chiede; non è il suo compleanno oggi? Rifletto. Scusi, dico, mi ero dimenticato. Ma non si può dimenticare il compleanno, è un giorno importante, il nuovo approccio alle risorse umane valorizza i dipendenti e il suo, se lo faccia dire, è un compleanno importante: quaranta. Annuisco. Quaranta, ripete il dirigente, e sorride. Devo andare in collina, dico. Certo certo, dice, bravo, bravo così; ho visto che ha chiesto ferie, se le merita, bravo, si riposi.
Non trovo la casa. C’è solo un camper. Dal camper esce l’uomo coi baffi. È qui, dice.
L’interno è spazioso, attrezzato, finiture di pregio, le pareti colme di fotografie, per la maggior parte motociclette, qualche viaggio all’estero. Nella zona pranzo siede una donna, piange. L’uomo coi baffi indica il fondo del camper.
Il corpo è seduto sul letto, i piedi a terra, la schiena collassata all’indietro. La mano ha lasciato l’arma che giace sul materasso: una rivoltella in acciaio, finiture blu e guancette di legno, una pistola pregevole. Accanto c’è il biglietto, lo scorro soltanto, non lo leggo per intero, vuole essere cremato.
Prendo la donna e la porto fuori, la studio mentre si accomoda sulla sedia in alluminio: una gran bella donna, forse ancora una ragazza. Davanti a noi un panorama di aria mossa e sfocata, la città è coricata sulla costa e sembra una signora svenuta.
Era suo marito? chiedo.
Lei scuote la testa. Fidanzati, dice.
Avevate figli?
Scuote la testa.
Il ragazzo giovane spunta a bordo prato, mi chiede di raggiungerlo. Alcuni signori che abitano qui accanto, dice, hanno visto la donna, quella donna, appostata nello spiazzo dietro le piante. È arrivata ieri sera, continua, e non se n’è più andata. È rimasta tutta notte? chiedo. Tutta notte. Quando siete arrivati voi, chiedo, dov’era? Ha chiamato lei, ci aspettava giù alla deviazione. Lo ringrazio e torno dalla donna.
Cosa ci faceva qua fuori, chiedo, tutta la notte?
Lei si spaventa. Tace e pensa. Ma poi parla.
Ieri l’ho chiamato, non rispondeva. Ero sicura, sicura che fosse con un’altra. Sono venuta a controllare, volevo parlare con la sua amante, una delle tante, quando fosse andata via, ma…
Come sapeva che il camper era qui?
Questo era il suo posto preferito.
Vada avanti.
Aspettavo, aspettavo, ma non è uscito nessuno, ho aspettato tutta la notte e questa mattina sono entrata con le chiavi di riserva, volevo coglier- li nel sonno, umiliarli, e invece.
E invece, ripeto.
Restiamo un po’ in silenzio, le voglio dare l’occasione per piangere, se ne ha bisogno. Non lo fa.
Perché il suo fidanzato era nel camper? chiedo.
Viveva qui. Nel camper?
Sì, ma non fraintenda, era ricco di famiglia. Avrebbe potuto comprarsi una villa, un attico in centro, qualunque cosa, invece diceva che preferiva sentirsi libero, che quando voleva spostarsi, bastava accendere il motore e via.
Annuisco e resto in silenzio. Lei non piange.
Ha idea del perché? chiedo allora.
Scuote la testa.
Problemi economici?
Nessuno, dice. Salute?
Scuote la testa.
Era mai stato in cura psichiatrica? Nemmeno psicologica? Depressione?
Era successo qualcosa nell’ultimo periodo? Mi scusi, ma perché lo ha fatto allora? Non capisco.
Lei nemmeno prova a rispondermi. Guarda lontano, respira, sospira, adesso vorrebbe piangere, si vede, non è solo tristezza.
È tornato ieri dalla montagna, dice, era andato a lanciarsi da un ponte. L’ultimo salto che gli mancava. Gli altri tre, per il b.a.s.e., li aveva già fatti, era così contento. È tornato solo ieri…
Tace a lungo.
Ne vede tanti? chiede poi.
Decessi?
Suicidi.
Sì molti, dico.
Tutti così?
In che senso?
Senza motivo.
No, di solito c’è sempre una ragione.
Quale? chiede.
Dipende. Vergogna o tristezza, insopportabili. Problemi, che almeno in apparenza non si possono risolvere. Depressione. Oppure quella cosa, che una volta chiamavano follia.
Suicidi come questo ne ha visti?
Intende…
Intendo, suicidi senza un motivo. Ne ho visto qualcuno, dico. Pochi.
Quanti?
L’ultimo di recente. Giù al porto.
E si è dato una spiegazione?
Non me la sono data.
Perché?
Non saprei. Forse una spiegazione non c’è. Forse si rompe qualcosa, nel profondo. Solo questo. Non saprei.
Hanno qualcosa in comune, chiede, questi suicidi senza un motivo?
I suicidi in sé, rispondo, nulla.
Ma? chiede.
Ma le persone che li hanno commessi, quelle sì, avevano molto in comune.
Cosa? chiede.
Mi volto verso il camper. Erano tutte come lui.
In che senso?
Poche radici. Sui quaranta. Niente figli. Molte donne.
Lei scoppia a piangere. Si ferma subito.
Scusi, dico nel frattempo.
Vada avanti, dice.
Uomini brillanti, vite al limite, sempre a contatto col rischio, con la morte, con la libertà.
Uomini depressi? chiede.
Scuoto la testa. Non è quello.
Lei fissa un punto all’orizzonte. Non si muove, a lungo. Poi torna a me, ma non abbiamo più niente da dire, la mando in ufficio ed entro nel camper.
Nei pantaloni dell’uomo trovo i documenti. La foto da vivo, un bel volto, quarantun anni compiuti da poco. Quasi come me. Tocco le cornici sparse alle pareti, la vita, intensa, le pinne, le bombole in un angolo, il paracadute nell’armadio ed è una vela di pregio, non come la mia, comprata di seconda mano. I guantoni appesi al gancio. Anche lui saliva sul ring.
L’uomo coi baffi è andato via. Il medico legale non è ancora arrivato. Mi guardo attorno e siamo solo noi: il cadavere, io, le fotografie. Per fortuna è l’ultimo giorno. Domani prenderò la moto, seguirò strade secondarie, carreggiate strette, tornanti illuminati dal sole. Una settimana di stacco, è proprio quello che ci vuole, la giornata tutta per me, aria pulita. Saranno giorni buoni e giusti e necessari e quando tornerò, ne sono certo, quando tornerò…


Michele Frisia è perito balistico. Ha iniziato scrivendo racconti di genere e sceneggiature, poi ha smesso. Alcuni suoi racconti si trovano su Nazione Indiana, Pastrengo, inutile, Verde, Risme e altre riviste. Il suo primo libro, un saggio romanzato dal titolo Delitti e castighi, è uscito nel 2019 per Dino Audino Editore con la prefazione di Giancarlo De Cataldo; il seguito uscirà nel 2020. Gestisce un blog con aspirazioni interdisciplinari su www.michelefrisia.it ed è redattore di Narrandom.