«Tra due settimane lasciamo la casa», dice Giada, «papà è sparito da mesi. Io, Stella e mamma andiamo al paese, a casa dei nonni. Mamma mi lascia finire la scuola, andrà bene l’estate, poi a settembre m’iscriverò a un altro liceo, là».
Ha gli occhi malinconici e insieme rabbiosi mentre parla: è lei. È il cardellino arrampicato alla gabbia e che a testa in giù prova a stare dentro questo mondo infame.
«Ieri sera è tornato con suo figlio», racconta Giada, «avrà vent’anni il figlio, prima hanno scopato mia madre. Poi Stella. Li sentivo godere e poi ridere. Volevo andarmene ma sono restata, meglio che stia lì a fare la guardia. In cucina ho preso il coltello più grande ma poi non ho avuto il coraggio».
Dei ragazzi, mentre dormivo sotto la panca della pensilina, mi hanno orinato addosso. Mi sono svegliato e c’erano i loro piselli puntati su di me.
Ridevano. Ho fatto per alzarmi ma uno di loro mi ha tirato un calcio sulle costole. Ho potuto lavarmi solo a metà mattina. Lucio m’ha fatto entrare al ricovero. Mi sono cambiato, puzzavo anche di più che sopra la panca la capra campa e sotto panca la capra crepa.
«Non ci vedremo più», dice, «ti spiace?».
Porpora salta come avesse un gregge da curare. È rimasto da solo nel recinto. Si ferma e lascia la lingua all’aria, pare sorridere.
«Papà è sparito, non è in prigione», dice Giada, «il suo cellulare risulta spento, nessuno sa dove sia, neppure i carabinieri. Mamma c’è andata per fare la denuncia ma la prendevano in giro, sarà a combinare danni da un’altra parte, le hanno detto. Forse è morto, sì, io sento che è morto».
Le mie giornate passano lente, uguali. Cammino e mangio, cammino e osservo, cammino e mi fanno male le ossa, cammino e scoreggio, cammino e mi fa male lo stomaco, cammino e chiedo la carità, cammino e penso, cammino e cerco un posto per dormire, cammino e cerco un posto per cagare, cammino e vorrei bere vino di quello buono, cammino anche nei sogni ma quando mi sveglio sono fermo da qualche parte. Vorrei invecchiare più in fretta ma il tempo mi ha inchiodato alla terra, sono sperduto anch’io come i bambini dell’isola che non c’è, solo che questa città non è un’isola e soprattutto c’è.
«Stasera no, domani non credo», dice Giada, «venerdì torneranno, vengono sempre di venerdì».
Si alza, richiama Porpora e lui arriva. Apre il cancelletto del recinto e Porpora esce scodinzolando. Si mette di fianco a Giada.
«Venerdì uno dei due lo ammazzo», dice, «almeno uno sì».

© Francesca Zanette

Sotto le arcate dei ponti della ferrovia. Vive lì. Si sposta poco, ha tutto quel che gli serve con lui. La gente del quartiere lo conosce, lo tratta bene, gli portano da mangiare. Ezechiele prevede il futuro, glielo dicono i treni, questo so. Non è facile farsi ascoltare da lui, devi andargli a genio, diciamo così altrimenti neppure ti vede. Sei lì di fronte a lui ma per Ezechiele non esisti. Ci sono stato una volta con un amico mio e niente, l’amico non è riuscito a farsi vedere. Dovrò essere cauto ma anche feroce per riuscire a entrare nel suo cono d’ascolto, devo riuscirci, devo farlo per Giada. Devo sapere cosa potrà accaderle, e in fretta. Passo sotto la galleria, i gas di scarico masticano l’aria del tunnel, non c’è ossigeno, solo gravità. Le suole logore delle scarpe mi trasportano dall’altra parte: è tutto più verde di qua, le case sono signorili, i negozi meno appariscenti. Il naviglio scorre docile tra gli alberi e il cemento. Io cammino, è la cosa che so fare meglio. L’aria mi ovatta le orecchie: sento mescolarsi i pigolii dei merli delle nuove nidiate agli sbuffi degli autobus e al raschiare delle saracinesche che si alzano. La curva dei binari taglia l’orizzonte gravido di ferro ed elettricità, è sospesa tra la terra e il cielo. Il campo sportivo a quest’ora è vuoto. Le reti delle porte velano l’erba che la brezza del mattino pettina da ovest verso est. A volte mi pare d’essere così leggero da non sentire la fatica dei passi e dell’età. Sono lieve, lievito, sono polline di pioppo, una piuma, un piumino bianco senza direzione. Vedo Ezechiele sotto la sua arcata. È sveglio, fa ginnastica. Con le braccia tese in avanti, piega le gambe. Su, giù. Costeggio il campo, il parcheggio. Un treno mi sferraglia sopra la testa. Il ciàciak delle ruote sui binari batte il tempo giusto alle nuvole che gonfiano il cielo. Questo, adesso, è un mondo perfetto.
«E tu che vuoi?», mi dice, «sei qua per l’altro o per te?».
Mi ha visto: «Per me», rispondo, «devo sapere di Giada».
«Giada», dice Ezechiele, «ragazza di vetro, trasparente».
«Proprio così.»
«Intanto piangi, tu prima devi piangere.»
«Piangere?»
«Sì. Ce la fai ancora?»
«Ma tu già la conosci Giada? Sai chi è? Sai di chi sto parlando?»
«Le vibrazioni dei treni di passaggio sono i brividi della terra, sono i miei palpiti, raccontano» Ezechiele alza le braccia come per arrendersi «sei qua, bene, ma hai portato con te anche gli occhi e il cuore?»
«Credo di sì». «Allora piangi, santo dio. Piangi o vattene.»
Mi guardo. Lo guardo. Cerco negli strappi dei nostri abiti sdruciti la commozione, la cerco nella polvere del rifugio di Ezechiele, nelle margherite che qua e là violano il verde dei prati, nelle piante che sbucano dagli squarci dei marciapiedi.
«Chi sei?», dice lui, «lo sai chi sei o no? O meglio, chi eri».
Scuoto la testa.
Ezechiele insiste: «Devi cercare la sorgente».
Chiudo gli occhi e faccio memoria. C’è mia figlia. È piccola, sto insegnandole ad andare in bicicletta. Abbiamo tolto le rotelle, lei s’impegna per stare in equilibrio. La cerco nel presente. C’è una sparatoria. Dove ti è entrato il proiettile? Le chiedo. È passato di fianco al cuore e poi è uscito. Dice lei. Piango. Le lacrime sgorgano lente, calde. Inizio a singhiozzare, non posso fermarmi, è come fare l’amore per quel che ricordo.
«Ti sta cercando» dice Ezechiele «fatti trovare».
«Giada vuole uccidere gli aguzzini», dico, «come andrà a finire?».
«Fatti trovare. E ora vattene, è ora di colazione.»

Porpora è accucciato di fianco a noi. Si riposa. Ha corso abbastanza. Respira rapido saettando la lingua. Vedo mia figlia arrivare. Cammina lenta, incredula. Mi vede. Si ferma per guardare meglio, per essere certa che sia davvero io. Avanza, si avvicina, si blocca davanti a me e a Giada che siamo seduti sulla nostra panchina. Porpora alza il muso e la guarda.
«Chi è?» chiede Giada guardando me e guardando mia figlia.
Mia figlia che oramai è una donna, che è una persona, che è una madonna della pazienza.
«Quindi esisti ancora?», dice.
«Chi è?», chiede di nuovo Giada. Tira le gambe a sé, posa i piedi sulla panchina, si abbraccia: «Voi due vi conoscete?».
Per scacciare l’imbarazzo mi chino verso Porpora, lo accarezzo. Ho vergogna per ciò che sono, per essere fuggito, per non essermi fatto più trovare. Ho vergogna di me, qua davanti a mia figlia, che è una donna adulta, una mamma, che ho messo io dentro questa vita. Io che non ho mai capito niente di me e che mi sono perso. Che cammino e mi trascino e che mi sono messo in testa di salvare questa ragazzina come fossi un angelo caduto sulla terra. Invece sono un vigliacco.
«Papà» dice lei «che ci fai qua?». Giada mi guarda. Poi guarda mia figlia. Per un attimo pare voglia sorridere. È indecisa. Lascia cadere le gambe sulla terra, posa le scarpe sulla ghiaia, Porpora ha un sussulto. Si tira in piedi, vuole farsi accarezzare da mia figlia, le si avvicina di più.
«Papà», dice lei, «non si fa così. Ti abbiamo cercato, perché sei andato via senza dire niente? Tre anni senza una parola. E ora cosa ti aspetti che dica, che faccia?».
Non dico niente. Non ho parole. Sono qua, c’è il mio corpo, altro da promettere non ho. Mia figlia accarezza Porpora.
«Che meraviglia» dice.
«Sì» dice Giada «è bravissimo» si ferma un attimo, fa un respiro breve e di nuovo guarda me e guarda mia figlia «tuo padre è un supereroe» dice «il mio supereroe».
Ezechiele lo sapeva bene, è per questo che ho fatto quel che mi ha detto di fare. E, adesso che è il momento di raccogliere la semina, tutto è imbarazzante. Esistiamo solo noi. Esiste Giada e la vita che ha davanti, esisto io col mio disagio e quel po’ di coraggio; esiste mia figlia, arrivata fin qua dopo la mia lettera, per non darmi dello stronzo come merito. Tutto il resto svanisce. I debiti, il padre di Giada, gli aguzzini. Finanche le sofferenze di Stella. C’è una casa di campagna, c’è la campagna, una vita nuova nella casa dei nonni. Svanisce la città, svaniscono i recinti, il lampeggiare dei semafori. E i filari della vite a settembre saranno pronti per la vendemmia, per il vino nuovo.

Se hai tempo e gambe la città è piccola e io ho tempo; quanto alle gambe, reggono se a pranzo riesco a mangiare un piatto di pasta. Sono tornato da Ezechiele ma non mi ha visto, ho provato a parlare ma niente, non esistevo più per lui. Aveva disegnato sul cemento dell’arcata una mongolfiera a forma di medusa, con le lancette dell’orologio nel centro del polpo-pallone. I tentacoli erano le corde che sorreggevano il cesto e dentro il cesto c’erano due bambine che si tenevano per mano e salutavano. Era un’immagine che mi dava un’idea di eternità, di cellule rigeneranti. Intanto Giada, Stella e la madre sono partite. La città è un inferno d’afa e di fumi nascosti. La polvere ce l’ho tutta nei polmoni. Mia figlia voleva che tornassi, ma ho preferito restare. E poi tornare dove, da chi? Non voglio essere di peso. Ora sa che ci sono ancora, che esisto, e anche se percepisco il tempo che ho gettato come un dolore, quel che di buono pensavo potesse cadermi addosso, lo sento in tutto il suo disincanto. Al ricovero è arrivata la lettera di Giada. Il liceo nuovo le piace. Stella è felice qua da nonni, mi ha scritto, anch’io. Del padre, mi scrive, non hanno più saputo niente. La vita in campagna è tranquilla, ha scritto, i nonni pensano a tutto, vado a letto presto, attorno ci sono campi e campi e poche luci. Intanto io sono in fila alla mensa del tram. È una giornata fresca, le piogge di ottobre hanno spazzato via l’estate, adesso il cielo è più torbido. Le nuvole sono accartocciate in uno strato omogeneo, brunastro, e trovare il cielo sopra i cristalli è più difficile. Dentro, mangio la mia pasta insieme alle altre mille persone. Esco e a ogni passo cerco nel volto degli altri quello degli aguzzini. Padre e figlio che si scopavano Stella e la madre a saldo dei debiti. Non c’è mai una preghiera per questo mondo, mai una volta che le preghiere scendano tra la gente e si facciano corpo. Restano implorazioni che salgono che si perdono nei buchi neri delle galassie. Dio? Davvero c’è qualcuno che crede esista? La fede va bene, la posso capire, ma siamo seri, non esiste nessun Dio, eppure credere che ci sia è il solo modo per andare alla ricerca della felicità. È un mondo che macina carne, lo spirito è la chimera da inseguire. Pensarlo tutto insieme vuol dire ammazzarsi, bisogna prenderlo a piccoli pezzi, come il bambino che la madre imbocca e che a ogni morso sbatte le mani sul seggiolone, ride, butta la testa indietro e poi torna. È così che riesco a individuare un minimo di senso, nel trascurabile irrilevante procedere delle vite che conosco, quelle a me più prossime. Delle guerre in Africa, dei morti in Centro America, dei ghiacci che si sciolgono all’Artico non m’importa nulla. Solo tenendo a chi ho vicino posso esserci, avere un nome e cognome, un corpo, un’anima, donarmi. Il tritacarne funziona solo quando per espiare la colpa di non amare chi posso, fingo di amare chi non posso. Quando cammino penso, e oggi sto pensando a queste cose. Cammino, cammino ancora. Adesso verso il ricovero. Sono bravo a calcolare il tempo dei semafori, mi fermo a riposare al rosso, poi procedo per chilometri. Non è poi tanto grande questa città. Sono certo che i due aguzzini prima o poi li incontro. Ora che Giada, la madre e la sorella non ci sono più, staranno cercando qualcun’altra che ha da ripianare debiti. Farò un giro da quelle parti uno di questi giorni. Ora che il disincanto ha ripreso a pungermi lo stomaco, sono pronto a fargliela pagare a quei due, e nel solo modo che mi è possibile, alla Clint Eastwood.


Luigi Antioco Tuveri è nato a Milano nel 1964. I suoi racconti sono apparsi su antologie edite da Terre di Mezzo, Autodafé, Historica, Alessandro Polidoro Editore (Déjàvu – Gennaio 2020) e su riviste tra cui Cadillac, Pastrengo, Verde, Spore, Crack, Colla, Risme, Inutile. Ad aprile 2019 è uscita la sua raccolta di racconti dal titolo Come sempre la morte (Gli Elefanti Edizioni).