Klaus non sapeva di avere un così enorme seguito di estimatori negli Stati Uniti. C’è chi lo riconosce per strada, chi lo implora per una firma su un LP dopo una sua esibizione. Sì, ha ricominciato a suonare davanti a una platea: la sua musica, e non quella degli altri; tutti i suoi esperimenti passano adesso per i piccoli palcoscenici newyorkesi, e può permettersi di campare ben oltre la dignità. Potrebbe osare di più, ma preferisce la sobrietà: sceglie un’abitazione identica a quella della Berlino orientale, di soli tre metri quadri più ampia. Gli basta per contemplare il silenzio, nonostante New York sia il regno del caos, un caos che però lo aggrada, col quale si diverte a plasmare sovra-incisioni per lui impensabili fino a pochi mesi prima. La ricerca del silenzio continua a tormentarlo, così si mette in testa, una volta per tutte, di rappresentarlo.
Il piano preparato, così ha chiamato il suo pianoforte a muro colmo di chiodi e pezzetti di metallo, sta già sul palchetto del locale che stasera ospita Klaus Käfig, un posto fumoso dove l’uomo bianco non è il padrone incontrastato. Lui, europeo, deve suonare per il nuovo continente, e stasera ha intenzione di farlo in un modo che lo farà ricordare in eterno.
Klaus sale sul palco: non interagisce col pubblico, non dice una parola. Prende posto sul panchetto e apre il piano, fissa la tastiera che al suo sguardo si tramuta in una massa informe: le ottave si mischiano tra loro, i semitoni diventano sette e i toni cinque per poi tornare al loro ordine originale. Sfiora i tasti, tiene gli occhi chiusi. Dalle prime file riconoscono il motivo dell’inno americano: la reazione è ilare, inframezzata da una protesta che si placa non appena il pianista ferma la musica, si alza in piedi e leva le braccia al cielo. Ha gli occhi spalancati, si dirige al limitare del palco; scruta uno a uno i volti davanti a sé, abbassa di poco le braccia e inspira. Anche dal fondo del locale carpiscono il suo respiro, e lui sa che se non lo farà adesso se ne pentirà per sempre. Di colpo butta giù le braccia e pronuncia quella parola: Silenzio.
Klaus e il suo uditorio ascoltano: suonano l’assenza e l’essenza della musica. Non è un silenzio totale, pensa l’autore della quiete, conscio di non poter aspirare a nulla di più perfetto.
Dopo quattro minuti e trentatré secondi, un tizio inizia ad applaudire. Lo segue un altro, poi un altro e un altro ancora. Il silenzio è rotto: Klaus Käfig potrebbe uscirsene di scena nel mezzo dell’ovazione e nessuno lo biasimerebbe; ma si rimette al pianoforte e aggiunge al concerto altre due ore di musica, variazioni sull’interruzione del silenzio.
Klaus Käfig ha suonato il silenzio: lo scrivono tutti i giornali, ne parlano le radio; persino il notiziario televisivo dedica un paio dei suoi minuti allo scalpore destato dal musicista. La penna dei critici s’infiamma e proclama un nuovo genio del Novecento, un artista capace di scavalcare e irridere l’avanguardia. Tuttavia, si fanno forti anche le voci dei puristi che difendono l’integrità dello spartito, della grammatica musicale, della tonalità: Klaus Käfig è un abbaglio collettivo, scrivono, ma il loro è solo un cicalecciare di sottofondo.
La città lo acclama. È già stato eletto alfiere della cultura statunitense pur non avendo un centesimo di sangue americano. La gloria sale, i guadagni pure: il Capitale remunera bene pure i suoi adepti meno fedeli, anche i discendenti delle attuali succursali di Mosca, anzi, gode ancor di più nel corromperli.
Klaus conosce bene il valore di quei soldi, frutto di un lavoro durato un’esistenza e mai ripagato appieno, figlio di un annullamento di sé, di un regime totalitario di studio e abnegazione. Adesso che li possiede, non ha ben chiaro cosa farci: la sua arte ha raggiunto uno zenit che crede di non poter né eguagliare né sconfinare.
La musica gli ha dato tutto, e lui ha dato tutto alla musica. È nel ripetersi in testa questa frase che nella vita di Klaus Käfig subentra una nuova mira, un’idea che aveva rincorso per lungo tempo, senza però avere le condizioni adeguate per svilupparla. Ha già suonato il silenzio, il placarsi del suono e del rumore: perché non diventare il direttore d’orchestra della sua nuova città?
Per qualche giorno Klaus non fa altro che stare al telefono; contatta chiunque pensa possa aiutarlo col suo progetto. Sei pazzo, gli dice qualcuno. Ma parla sul serio?, gli chiede qualcun altro. Nessuno capisce il suo obiettivo, malgrado a lui sembri tutto assai semplice: le persone dovranno solo fare quanto lui dirà loro, e il resto verrà da sé; sarà la città a suonare per loro, e lui la dirigerà. Basterà che i tassisti, i falegnami, i muratori, i piloti di elicottero, gli elettricisti e gli abitanti tutti della Grande Mela facciano quel che lui ordina: Klaus Käfig si accontenterebbe pure di un’improvvisazione, molto più somigliante alla vita. Ma come fare a convincerli? E soprattutto: come coinvolgere i colleghi musicisti che finora gli hanno solo riattaccato il telefono in faccia?
Klaus Käfig va a parlare col sindaco. La sua fama lo precede, e dunque per lui è uno scherzo esser ricevuto dal primo cittadino.
Mr. Käfig, gli dice il sindaco, per quanto possa valere la mia opinione io, la ritengo un genio ma non posso assecondare la sua follia, esula da ogni mia competenza, e non posso certo costringere milioni di cittadini a fare ciò che dice lei. Glielo assicuro chiunque altro al mio posto avrebbe fatto lo stesso.
Udite le parole del sindaco, Klaus Käfig pensa di intraprendere l’unica strada percorribile.
Stavolta gli è bastata una telefonata per far portare il suo pianoforte in cima a un grattacielo. Non ha scelto il più alto, il più bello o il più famoso, bensì il più sobrio e severo, la costruzione che più di altre, a parer suo, avrebbe potuto ricevere e diffondere suoni.
I traslocatori di pianoforti fanno il mestiere più nobile al mondo, pensa Klaus Käfig. Quelli che ha chiamato lui hanno avuto la fortuna di trovare nel palazzo un ascensore abbastanza capiente da contenere il pianoforte a muro e, giunti all’ultimo piano, se la sono cavata con pochi scalini. Hanno piazzato lo strumento al centro del blocco di cemento armato e hanno lasciato Klaus da solo a valutare l’altezza del suo prossimo palco.
Klaus è a tu per tu col suo pianoforte, non gli si è neanche avvicinato; ancora lo scruta da una decina di metri mentre si concentra sulle stratificazioni di rumore circostanti: pensa di non averle mai avvertite così intense, quasi palpabili. Vorrebbe poter afferrare ogni vibrazione di cui percepisce la concretezza.
Degli uccelli passano sopra di lui: il loro canto è coperto dal rumore di un martello pneumatico che arriva dal marciapiede lì sotto, solo che lui non ne comprende l’intensità. La forza straordinaria del metallo che scalfisce l’asfalto gli giunge potente alle orecchie anche alle decine di metri d’altezza cui si trova.
Si sporge per guardare di sotto: non è un solo martello pneumatico a suonare, ma quattro tutti assieme. Gli operai col casco giallo in testa bucano il suolo cementato con i foratori elettrificati, vanno a tempo come se un capocantiere con la bacchetta avesse ordinato loro di farlo, e Klaus è strabiliato da quella ritmica sublime.
Riporta lo sguardo sul pianoforte: i martelli pneumatici gli penetrano la testa, si figura una serie di spartiti e inizia mentalmente a riempirli con le parti da assegnare a ogni sezione. Una è già sistemata, e ora è la volta delle sirene della polizia che si mescolano alle autoradio dalle quali risuonano blues, rock ’n’ roll, echi gershwiniani, folk di protesta, voci di persone che discorrono, ridono, s’arrabbiano, mentre i motori delle automobili, in coda sulle avenue e sulle parallele, sono accesi: c’è chi strombetta per il gusto di farlo e di rimando qualcuno replica con una variazione sul tema; tutto si lega inscindibilmente, come il jazz dei musicisti di strada abbraccia le grida di un pazzo che annuncia la fine del mondo e l’invasione aliena. Klaus distingue tra di esse le varie parti come nessun altro suo pari saprebbe fare, perché tutti si fermerebbero alla superficie del rumore senza la volontà d’entrare nel caos e trovarvi un ordine perfetto.
Klaus si accomoda al piano e lo accarezza, ne annusa l’odore ogni volta diverso, ne avverte i tremori dati dallo scuotersi della megalopoli americana, popolata da umani asserviti al dominio della tecnica e risucchiati in effimere nebulose pronte a scagliarli in nuove dimensioni, dove le somme di solitudini perseverano nel loro corso, così come lo fanno anche mentre Klaus comincia il suo concerto per piano e metropoli, accompagnato da New York, dai suoi intasamenti e dalle sue discrasie: furori, fumi, marmitte e ingranaggi frizionano tra loro, tacchi di donne che come il quartetto dei trapanatori intaccano gli impiantiti e scuotono le fondamenta.
La città pulsa di vita.
Klaus Käfig la sta suonando.
Marco Renzi è nato nel 1989 a Figline Valdarno (FI), dove vive. Laureato in lettere, è dottore di ricerca in Italianistica. Ha scritto di musica per Audiodrome, TheNewNoise e IndieForBunnies; ha collaborato per quattro anni alla sezione letteraria (Re: books) della rivista Il Mucchio Selvaggio. Suoi articoli e racconti sono comparsi su L’Eco del Nulla, Minima et Moralia, Duemilauno, PULPLibri, CrapulaClub, Nazione Indiana, In fuga dalla bocciofila e Spore.