Deve essere stato il fulmine a svegliarmi, un botto tremendo che credevo fosse venuto giù il lampadario. Mi ero appisolato, nonostante fosse metà pomeriggio, con ancora indosso la tenuta da ciclista.
Ora sono seduto sul letto, frastornato. C’è un odore di aria bruciata che penetra dai vetri aperti, forse il fulmine ha colpito una pianta del cortile. A parte i rumorosi scrosci di pioggia è tutto silenzio qua dentro. Troppo silenzio. La stanza del Monferrato, la pensione in cui ho preso alloggio, mi sta improvvisamente stretta, ho bisogno di uscire all’aperto anche se piove.
Ma quando esco non piove più e ha smesso pure di tuonare.
Il tempo è come fermo. Passeggio per le vie del centro per rilassare i muscoli induriti delle gambe. Non avevo previsto di far tappa in questa cittadina ma alla stanchezza non si comanda.
Dovrebbe essere l’ora della calca ma questa via è incredibilmente vuota, la cantilena di passi e voci che mi aveva cullato il sonno adesso tace. E c’è una strana nebbia, un vapore che non bagna, una coltre lattiginosa fuori stagione che forse nasconde le persone e di certo annulla i suoni. Mentre mi guardo le mani per sentirmi vero, passa un bimbetto che trascina un giocattolo rotto. Lo vedo, almeno lui! Ha una testa tonda e tozza, la lingua penzoloni, uno sguardo inespressivo e gesti goffi.
Lo fermo e gli chiedo dove siano i suoi genitori. Mi fissa muto e poi si volta indietro come a cercare rassicurazione in un volto adulto amato. Guardo nella stessa direzione e incontro solo una nebbia più compatta che altrove, come un bozzolo di baco. Dimenticando il senso del ridicolo provo a rivolgere qualche parola a quell’ovatta informe, ma non ottengo alcuna risposta. Risalgo la via sempre più stranito, dove sono tutti? E queste ombre bianche sono loro, le persone?
Non lo so, brancolo in un buio fatto di luce.
«Posso fare qualcosa per lei?». Davanti a me c’è un vecchio malvestito, sbucato non so da dove. È di una magrezza dignitosa. In mano ha una pipa di schiuma che ogni tanto porta alla bocca mentre aspetta paziente che gli risponda.
«Non capisco nulla», gli dico indicando il biancore che ci circonda. Lui sorride da un volto incartapecorito che conserva vivacità solo negli occhi di un azzurro intenso. «Lei non è di qui, vero?». Gli confermo che sono arrivato da poche ore. «Bè, capita al momento giusto. Oggi è il 18 agosto, una data importante per la città, anche se la gente non ne parla volentieri.» Gli faccio notare che di gente non ne ho vista, solo lui e un bambino poco prima, il resto un deserto desolante. «Già, la nostra nebbia di mezzo agosto» dice, come fosse un fenomeno conosciuto. Cerco d’incalzarlo: «Si tratta di una specie di carnevale, in cui anziché dietro le maschere ci si nasconde nella nebbia?». Lui si limita a scuotere la testa e a sorridermi senza preoccuparsi di mostrarmi i denti rovinati. Poi con la pipa mi indica una giovane donna che sta attraversando la piazza. Un’altra presenza viva, sono tentato di abbandonare il vecchio e correrle dietro, interrogarla, arrivare a capire. Ma l’uomo riprende a parlare: «È la puttana del Gramsci», e dà a quelle parole una dolcezza infinita, poi torna aspro, «almeno così la chiamano, a marchio, anche se il liceo l’ha lasciato da anni».
E mi racconta di questa studentessa che un pomeriggio ha appuntamento col suo ragazzo nella palestra della scuola. Lui strafottente, seduto su una panca con le mani in tasca, la vuole vedere nuda, lei innamorata ed esaltata dalla sua richiesta perentoria, inizia a spogliarsi. Quando la ragazza si accorge della trappola, lui ha nascosto lì i suoi amici a testimoniare il proprio successo, non si ferma e va avanti fino in fondo, «la pelle coperta di brividi e di lacrime. Davanti a lei sghignazzi senza volto e cellulari che la immortalano».
La voce del vecchio s’è fatta furibonda, lui mi guarda come se il racconto spiegasse tutto. Io comprendo poco, però provo un’emozione sconosciuta osservando la donna che ci passa accanto. Né bella né brutta, sembra che ancora porti in viso con fierezza i segni dell’umiliazione subita. E viene voglia di chiederle perdono.
L’uomo anziano mi prende sottobraccio, «Andiamo» mi dice, e iniziamo a girovagare per le strade spopolate. Ovunque la medesima caligine e la stessa assenza di persone, ma ogni tanto incontriamo una figura solitaria che si staglia in una sorta di alone luminoso. Sono tutte figure minori, che in un giorno qualunque non avrei nemmeno notato. Di ciascuna Corrado, il vecchio di cui ormai sono diventato amico, vuole raccontarmi la storia. Storie di poco conto, episodi minimi successi di recente o in un tempo lontano: Jamal che spaccia accendini nei parcheggi, Anna la pazza che parla coi gatti e tace coi cristiani, Gianni l’evaso, subito ripreso per sua scelta, perché non aveva un posto dove stare. «L’Ingegnere è al suo esordio tra noi», mi dice Corrado quando arriviamo di fronte a un uomo ritto come un palo nello slargo del Borghetto. Ha un cartello appeso al collo e sul volto ben rasato mostra la sofferenza imbarazzata di chi non è abituato a chiedere. Corrado gli si avvicina, gli sfila di dosso il cartello, «questo non ti serve, oggi», gli dice abbracciandolo. Riesco a leggere una frase: mi scuso e mi vergogno, ma sono costretto a chiedervi l’aiuto di un lavoro…
Il mio recente amico mi chiede se ora comincio a capire.
Rispondo perplesso: «Mi rendo conto che c’è un nesso di desolazione tra queste persone, ma il più ancora mi sfugge. Si tratta di un fenomeno dettato dal caso, tipo a chi tocca, tocca, o è una specie di nebbia intelligente e giusta?».
Corrado ride: «Nessuno qui ha voglia di fare domande e dare spiegazioni su questo piccolo mistero che si ripete puntuale negli anni. E oggi chi ha un seppur minimo potere, una qualche reputazione da difendere, anche solo un’immagine appena decente da salvaguardare, in pratica la maggior parte dei miei concittadini perbene, se ne sta rintanato in casa. Sai lo smacco a scoprirsi e a mostrarsi invisibili! Solo pochi se ne vanno in giro sfidando il giudizio della nebbia, e ancora meno sono quelli che la nebbia risparmia e fa rifulgere. Noi, gli eletti di oggi, siamo i derisi, gli ingenui, i trascurati, noi siamo quelli che tutto l’anno perdono, senza che ci sia un giustificato motivo alla nostra sconfitta».
Mi affascina il sereno orgoglio di Corrado. Ora capisco che di questa vicenda l’aspetto fondamentale non è comprendere perché accada ma sapere che succede. C’è però un dettaglio che mi mette a disagio: «Perché proprio io con voi?».
Il mio amico sorride, comprensivo: «C’è bisogno di qualcuno, estraneo a noi, che abbia gli occhi giusti per vedere e raccontare».
Ritorniamo senza fretta verso il centro. Ripassando sul ponte in pietra, mi sporgo dalla spalletta: dal fiume sale lentamente un vapore compatto, incessante, è da lì che nasce e che si spande per le vie e le piazze questa nebbia misteriosa.
Prendo commiato da Corrado, «è ora che io vada», gli dico. Mi abbraccia con calore, «mi raccomando, contiamo su di te», è il suo saluto. Lo rassicuro: «Stasera stessa butterò giù una cronaca di questa giornata straordinaria».
E lo faccio appena rientrato in albergo, con la convinzione di adempiere a un dovere. Ma non so quanti crederanno alle mie parole.
massimolegnani (pseudonimo) è appassionato di scrittura. Da alcuni anni gestisce un blog (orearovescio.wp) su cui pubblica racconti, pagine di diario e alcune esperienze di lavoro.