Ho assaporato per la prima volta il gusto ferroso del sangue a quattro anni, la dolcezza delle labbra a quindici e il salato delle lacrime pochi mesi dopo. Ho sussurrato addii e urlato a squarciagola canzoni d’amore nel mio buio, chiuso in una stanza vuota. Ho chiesto di essere perdonato anche quando non avrei potuto e stretto i pugni, le braccia lungo il corpo, quando invece avrei dovuto accarezzare. Ho cercato in ogni occasione di ascoltare il battito del cuore, anche se il mio sguardo non è mai stato catturato dalla bellezza dei tramonti. E ho scoperto che la vita aveva un gusto diverso il giorno in cui ho sfiorato con le dita il viso di mia figlia.
Carlotta è nata una notte d’inverno, come i fiocchi di neve, i baci sotto le coperte e i frulli di vento gelido. Bianca sorrideva, mi ha afferrato la mano e l’ha guidata verso la culla. Carlotta stava dormendo, sentivo il suo respiro lieve e quando l’ho tenuta stretta in un abbraccio, profumava di latte condensato, cumarina e cassetti ricolmi di sogni da realizzare.
Il tempo, da quel momento, ha smesso di avere importanza.
Neve sulla pelle, risate e pianti disperati, pioggia che infradicia capelli e pensieri, sapore di fragole, odore di nebbia e temporale, scricchiolare di foglie secche sotto le scarpe, carillon e tintinnio di bicchieri, capricci e girotondi, baci e notti insonni…
«Papà!»
Il sonno resiste qualche istante, poi realizzo che Bianca ha il turno di notte. Scosto il piumone, mi volto verso sinistra e poggio i piedi nudi in terra. Le piastrelle sono fredde. Un brivido. Mi accarezzo la barba ispida e mi avvio verso la cameretta di Carlotta.
«Eccomi piccola, tutto bene?»
«Ho paura del buio…»
Cerco i suoi capelli e li accarezzo piano, appena sopra l’orecchio.
«Non devi, io vivo sempre al buio e non ho mai paura».
«I papà non hanno paura di nulla…»
«Non è sempre così…» sorrido, «ora ti svelo un segreto. Ogni cosa ha un profumo, anche la più piccola. Se non si chiudono gli occhi e si rimane al buio, non si riesce a sentirlo. Il buio non fa paura, dà la possibilità di intravedere il mondo da altre prospettive».
«Davvero? Facciamo una prova…»
Carlotta si mette a sedere sul letto e io mi avvicino a lei.
«Di cosa profuma il mio orsacchiotto?»
«Di mughetto e saliva.»
«Io non sento niente…»
«Vieni con me.»
Ci alziamo e apro la finestra.
«Guarda fuori. La vedi la luna?»
«Sì.»
«Bene, ora chiudi gli occhi e cerca di sentire il suo profumo».
Carlotta rimane in silenzio qualche secondo. Poi mi abbraccia.
«Secondo me la luna puzza di formaggio…»
Ridiamo insieme, la bacio e la riporto a letto.
«Ora dormi…»
«Papà?»
«Dimmi Carlotta.»
«Non andare via…»
«No, sono qui, rimango con te…»

Il parco giochi trabocca di bambini urlanti. Zeno li sente ridere e fingere di essere feroci pirati o provetti astronauti impegnati in chissà quale missione segreta. Ricorda che Carlotta si divertiva ad andare in altalena. Zeno ascoltava la catena cigolare sui perni corrosi dal tempo e la immaginava dondolare sempre più in alto, la gonna del vestitino a fiori svolazzare avanti e indietro. Tornava sudata e felice leccando un gelato che Bianca le aveva comprato dal carretto fermo alla rotonda con via d’Azeglio, proprio all’ingresso del parco del Valentino.
Zeno sospira a quei ricordi, la borsa della spesa sulle ginocchia, e come accade spesso, anche oggi qualcuno gli si siede accanto. Rimangono entrambi in silenzio per qualche minuto, poi una voce maschile inizia a parlare. Zeno ascolta, a volte annuisce ma senza commentare. Le persone tendono a confidarsi, si fidano di lui, come se la sua cecità gli permettesse di scorgere e comprendere meglio le loro emozioni, di sentirli per quello che sono veramente, di aiutarli a cercare una verità che esuli dall’aspetto esteriore. E Zeno non si tira indietro, li lascia parlare. Alla fine gli stringono la mano o gli danno una pacca sulla spalla e vanno via. Alcuni non dicono nemmeno il loro nome, persi nei loro racconti, anime erranti che non incontrerà mai più e il cui ricordo svanirà come i segni sulla pelle che lascia un cappello troppo stretto.
L’uomo misterioso di oggi smette di parlare presto e si alza. Saluta e il suo bastone da passeggio bussa sulla stradina sterrata fino a che il rumore svanisce dietro qualche siepe.
Zeno si è seduto su questa stessa panchina anche quando Carlotta era piccola, Bianca al suo fianco e il passeggino appena a lato. Gli piace perché da lì riesce ad ascoltare il lento scorrere del fiume. L’ha sempre affascinato il Po, fin da quando era bambino, per la sua silenziosa capacità di defluire cheto per poi scatenarsi d’improvviso. Come la vita, d’altronde.

La casa del sogno
© Alessandra Di Paola

Carlotta ha rimandato la partenza di un paio di giorni.
Questa mattina si è svegliata presto. Ha dormito nella sua vecchia cameretta, la giostra di luce accesa sul comodino per rischiarare il buio. Io sono stato seduto sul divano tutta la notte, alternando veglia al sonno. In alcuni momenti mi è sembrato di percepire la presenza di Bianca accanto a me, seduta spalla a spalla come la sere in cui ascoltavamo le sonate per pianoforte di Brahms e di Beethoven. Ho provato a cercare le sue mani, a chiamarla sottovoce, un paio di volte, ma la casa ha sempre risposto con un silenzio. Poi ho sentito Carlotta armeggiare in cucina e preparare il caffè, nero e senza zucchero. Piace a entrambi così. Lo abbiamo bevuto senza parlare, uno difronte all’altra, prima di andare a cambiarci. Io mi sono vestito con pantaloni di velluto e il maglione di lana che mi aveva regalato Carlotta per Natale. Il taxi è arrivato in orario. Torino ha salutato Bianca con una giornata fredda e umida, un vento teso che faceva stringere nei cappotti. Non ricordo nulla del funerale, nessuna preghiera, nessun commiato, nessuna parola di conforto sussurrata all’orecchio, solo il profumo dell’incenso e il picchiettio della pioggia sugli ombrelli.
Ci sono momenti in cui la città pare una coperta calda e avvolgente, altri in cui ti fa sentire un naufrago a bordo di un canotto disperso nel bel mezzo dell’oceano. Questa sera è così, distante come non mai. Anche Carlotta è andata via. Nel pomeriggio è tornata a casa sua a preparare i bagagli per Londra, una città che per lei è sinonimo di nuove occasioni. Mi ha chiesto se preferivo che non partisse, l’ho abbracciata e ho scrollato la testa, le ho detto che sarei riuscito a cavarmela. Ho mentito, che altro avrei potuto fare, i genitori devono anteporre il bene dei figli a ogni cosa. Non voglio ammetterlo, ma credo che Bianca sarà un vuoto che faticherò a colmare.
Mi manca già la sua voce, il modo in cui mi abbraccia stretto e mi carezza il collo, le sue labbra che sanno di cioccolato all’arancia. All’improvviso il cellulare che ho poggiato sul cuscino inizia a vibrare. Rispondo e la voce di Carlotta…

…non riesce a celare una vena di emozione. Zeno non aveva detto nulla, ascoltava le parole di sua figlia e sorrideva. Erano più di sei mesi che non si incontravano e Carlotta gli aveva spiegato che sarebbe tornata in Italia nel fine settimana per passare a trovarlo.
Bianca non era più con loro da cinque anni, ma in questo periodo Zeno l’aveva sempre sentita al suo fianco e si era reso conto dello scorrere del tempo solo toccando le rughe del suo viso che si erano fatte più evidenti, un dedalo di strette viuzze scavate nella carne che adesso s’intersecano tra loro senza condurre in alcun luogo.
L’abbaiare lontano di un cane entra nella stanza insieme con il caldo dell’estate e lo distoglie da quei pensieri. È quasi tutto pronto ad accogliere Carlotta, l’acqua per il tè si scalda nel bollitore e la torta di mele è in veranda a raffreddarsi. Zeno sistema i cuscini sul divano e mette il mazzo di tulipani al centro del tavolo.
Sente bussare.
Il cuore sussulta un secondo, perde un battito nel tragitto tra salotto e ingresso. Apre la porta. Non ha bisogno della vista per riconoscere sua figlia. Carlotta non dice nulla, prende le sue mani e le porta al volto. Zeno sfiora i capelli che profumano di miele, gli occhi stropicciati da una notte agitata, gli zigomi, le guance, le labbra. Carlotta sembra diversa, come una farfalla appena uscita dalla crisalide. Poi sente che i suoi lineamenti si distendono in un sorriso sotto i polpastrelli prima che lei gli appoggi le mani sulla pancia. Zeno sente la pelle tesa, l’ombelico in rilievo e percepisce un lieve movimento sotto la pelle, un leggero scalciare.
«È una bimba, papà. E la chiamerò Bianca…»
Rimangono così, sull’uscio di casa, in silenzio, senza dire altro. Zeno piange, non riesce a parlare. Immagina sua nipote, immagina di cullarla e abbracciarla. Quando verrà a trovarlo le farà visitare la città, i suoi suoni e i suoi odori. E la notte, se non riuscirà ad addormentarsi, la prenderà in braccio e andranno insieme alla finestra. Guarderà le stelle che illuminano il cielo di Torino e le racconterà che la luna… la luna profuma di formaggio…


Davide Ceraso è nato nel 1976, vive a Cuneo. È laureato in Scienze forestali e ambientali. Scrive da un paio d’anni seduto sulle carrozze dei treni che lo portano per lavoro a Torino. Un suo racconto è contenuto nel libro Quartieri (La Feluca Edizioni), altri sono stati pubblicati in antologie di premi letterari nazionali e altri ancora sono apparsi sulle riviste Crack, Marvin, Voce del Verbo, Smezziamo, Spore, Malgrado le mosche, Neutopia e Rivista Blam. Nel corso del 2020 uscirà il suo romanzo d’esordio edito da DZ Edizioni.