Nel corso della mattina si alza un vento debole. A ponente il cielo è pulito mentre a levante una colonna di nubi si è sollevata dal mare. Sono cumuli grigi, della consistenza di polvere. Coprono il sole restando immobili, ordinati in verticale nella stessa porzione di cielo. Tra le dieci e le undici il vento cambia direzione, da scirocco a libeccio, rafforzando d’intensità. A poco più di un chilometro a sud della diga foranea è alla fonda una nave. Dal suo ufficio (o meglio dalla stanza a lui assegnata all’interno dello studio del suocero), Enrico la osserva. Nonostante non sappia molto di nautica, gli sembra di riconoscere nella forma bassa e piatta dello scafo una petroliera, ma la prospettiva, e il fatto che l’imbarcazione sia girata di poppa, potrebbe ingannarlo. Non è una petroliera ma si sbaglia di poco. Il grosso cargo fermo in rada da due giorni in attesa di ormeggio è un mercantile battente bandiera britannica, partito una settimana fa da Novorossijsk, sul Mar Nero, con addosso ventitremilaseicentosei tonnellate di cromo e un equipaggio di cinquantotto persone, se si contano le due ospiti occasionali, Mrs. Miur e Mrs. Hill, rispettive mogli di comandante e marconista.
Enrico guarda la nave ma non è all’equipaggio che pensa. Ad attirarlo è la macchina, il suo funzionamento. La potenza delle turbine collegate alle eliche; la spinta che un oggetto di quelle dimensioni deve opporre al mare soltanto per resistere alla corrente. Immagina un edificio come quel cargo: unico, magnifico e isolato. Non è un pensiero particolarmente originale, lo sa, altri prima e meglio di lui l’hanno già fatto; un cantiere dopo l’altro, da Parigi a Berlino, transatlantici rivestiti di cemento, sospesi su grossi pilasti, stanno emergendo in superficie quasi fossero rimasti in attesa nelle profondità della terra. Creature partorite da menti di uomini come Enrico – uomini dotati di immaginazione e tenacia, capaci di incarnare il progresso e abbastanza coraggiosi da non aver ancora costruito niente.
«Ti hanno detto che è stato approvato?»
Al suono della voce, Enrico si volta. Un istante per mettere a fuoco la figura in piedi sulla soglia e un altro per capire a cosa si riferisca: sta parlando del PEEP, il Piano di Edilizia Economica Popolare che questa mattina è stato discusso in Comune. Certo, è Paolo. Nessun altro entrerebbe senza bussare.
«Non ne sapevo niente.»
«Davvero? Torno adesso da lì.»
Paolo si lascia andare sulla sedia di fronte alla scrivania; con una mano cerca il posacenere (un posacenere che Enrico non usa, eppure eccolo, spolverato ogni sera, lavato con cura ogni sabato mattina dalla stessa donna che da vent’anni si occupa di pulire lo studio), l’altra la tiene sul fascicolo che ha portato con sé. Ha gli stessi occhi azzurri di Giulia, la stessa carnagione eccezionalmente pallida, ma in lui non c’è traccia di emozioni trattenute, nessuna ombra. Il suo è il corpo del padrone. C’è un soprannome (che Enrico sospetta abbia contribuito a diffondere lui stesso) con cui è conosciuto in cantiere: il Figlio. O meglio, o Figgeu – una parola impossibile da pronunciare, tutta sibili e fischi, un soffio di aria fetida e salmastra; è un attimo cadere nel ridicolo per chiunque non sia della città – che gli operai dicono in fretta, accompagnata dalla caricatura di un segno della croce, una lama che trapassa fronte e cuore, alla quale non si sfugge.
«Come va con la piccola? Dorme?»
«Bene. Va bene.»
«E Giulia si sta riprendendo? Dovrei venirvi a trovare più spesso.»
«Stiamo tutti bene, Paolo. Grazie.»
«Mi fa piacere. Sono queste le cose importanti, no?»
Paolo non riesce a stare fermo. Muove il ginocchio, continua a lasciare e poi riprendere la sigaretta nel posacenere. È eccitato come un bambino che cerca il momento giusto per rivelare il suo segreto. Enrico è abituato a vederlo così; nello stesso modo in cui è abituato a vederlo sprofondare in una cupezza torbida e improvvisa, capace di impestare per giorni lo studio. A questo punto, dopo quasi tre anni di conoscenza, tra fidanzamento e matrimonio, ci si aspetterebbe che si fosse fatto un’opinione precisa del cognato. La verità è che per lui non prova niente, se non un vago e poco convinto senso di superiorità che lo porta a guardare con un certo disprezzo la cronica incapacità di Paolo di trattenere le proprie emozioni (sarà questo che lo ha sempre attratto di Giulia? Il suo essere diametralmente opposta al fratello; il suo muoversi in un universo di formale distacco, camminando leggera sulla superficie delle cose).
«Questo ha la priorità su tutto», dice Paolo tamburellando il fascicolo che tiene in grembo. «Prenditi chi vuoi ma fai in fretta, non più di un paio di settimane per un preliminare ben fatto.»
Normalmente, prima di mettersi al lavoro, Enrico aspetterebbe la conferma del suocero ma questa volta sa benissimo di cosa si sta parlando: basta un’occhiata, un cenno di intesa e Paolo salta su, il rumore dei fogli che colpiscono la scrivania scura che definisce lo slancio.
«Tu dammi il progetto. Dammi il progetto, ed io ti tiro su quello che ti pare.» Paolo sorride, mostra i denti. Tutta l’arroganza e il potere della sua stir- pe condensati nel bianco adamantino della sua bocca. «Questo è nostro, Enrico. Porca puttana, è nostro.»
Una volta solo nella stanza, Enrico si siede. Fa un respiro profondo e per un attimo chiude gli occhi. Il cuore è un martello che si abbatte con la forza di un’unica onda.
Questo è mio, pensa. Porca puttana se è mio.

© Francesca Zanette

Un milione e seicentotrentamila metri quadri. Popolazione prevista: trentaduemilaseicento abitanti. Più di cinquanta edifici, seimila alloggi, dieci settori operativi suddivisi tra l’Istituto Autonomo Case Popolari, il Consorzio degli imprenditori edili e il Comune. La più grossa impresa edilizia dal dopoguerra, un delirio di grandezza.
Enrico sfoglia il fascicolo: un’elegia di grafici e dati quantitativi che decifra in fretta, basta uno sguardo per sentirsi a casa. È l’una, in studio sono tutti usciti per pranzo. Fuori il tempo è peggiorato: il vento sta aumentando e la risacca si è trasformata in un movimento turbolento. Onde alte e bianche si rompono sulla diga mentre a riva il mare ha divorato la spiaggia. Il vento, dopo aver girato per tutta la mattina tra sud-ovest e sud-sud ovest, ha definito la sua direzione: un libeccio ostinato e freddo che in un attimo ha ripulito il cielo portandosi dietro la manciata di navi che ancora sostavano al di fuori dell’area del porto, a eccezione dell’unico mercantile verso il quale periodicamente Enrico solleva lo sguardo (sarà il chiarore, innaturalmente amplificato dal vento, ma adesso la nave non sembra più vicina alla costa?). Accanto allo stralcio del Piano Regolatore tiene un foglio sul quale non ha ancora registrato alcun dato. Bisbiglia tra sé numeri che lentamente iniziano a configurarsi in geometrie che non ha fretta di fermare sulla carta. Il foglio bianco (un bianco ottico; strati di cellulosa trattati con cloro, pressati e impregnati di amido fino a trasformare la polpa di un albero in una superficie che è l’idea di ogni superficie, lo spazio prima dello spazio) in cui si condensa la potenzialità del progetto. Un esercizio di disciplina che tende il corpo, uno sforzo fisico prima ancora che mentale, ma che in un attimo sfugge al controllo; e allora, eccola, quella prima linea, la traccia che si apre come una trincea e divide, come ogni creazione che si rispetti, il buio dalla luce, il bene dal male, ciò che poteva essere da ciò che è. Insieme al movimento delle dita l’immaginazione trattenuta si trasforma in visione: la matita corre veloce sintetizzando in un rettangolo più di un chilometro di spazio edificato; un fronte compatto che chiude la valle, solidifica il cielo, la prospettiva ridotta a un costante primo piano. È la vertigine della semplificazione: una città intera (una città in potenza eppure reale, con i suoi spazi di aggregazione, i negozi, le scuole) trasformata in muro. Quindici, venti piani? Quanto serve a colmare il dislivello? Non importa, l’edificio si alzerà quanto si deve alzare. Adesso bisogna dare forma allo scheletro, plasmare la struttura: una scacchiera di pilastri distanti tra loro non più di cinque metri, come le campate di una chiesa. Nessuna eccezione alla norma, nessun pezzo realizzato sul posto: è fondamentale contenere i costi, si tratta pur sempre di edilizia popolare; ma non è solo per questo. Il limite è una sfida, e lui non vuole barare. La logica del modulo prevarrà al punto che l’ottanta per cento del costruito arriverà già prefabbricato in cantiere. Non piacerà, ci saranno critiche; in molti, anche tra i suoi, dubiteranno della fattibilità dell’impresa. Si aprirà una disputa tra tecnici e Comune, e allora l’unica soluzione sarà affidarsi a Paolo (l’inconsistente, lunatico Paolo; con le sue scarpe da barca e le partite a tennis, le camicie troppo strette sul petto e l’aria di un chierichetto dagli occhi furbi): ma questo, perdio, è il futuro.
Enrico ha ancora la matita in mano quando un fischio irrompe nella stanza. È un suono debole ma prolungato (il rumore meccanico del vapore che corre attraverso i tubi; un ultimo disperato sforzo di pressione per attivare delle turbine che non raggiungeranno mai il giusto calore) che lo spinge a sollevare lo sguardo. Di là del vetro, sul ponte della London Valour (adesso che la prua è girata a ponente la nave mostra il suo nome), si alza del fumo: per almeno dieci secondi una densa nuvola scura si leva dalla ciminiera, poi più nulla. L’imbarcazione, trascinata dalla corrente, si trova a non più di cinquanta metri dalla diga.

Per capire che cosa sta accadendo alla nave bisognerebbe aprire il mare. Renderlo trasparente e proseguire verso il basso, oltre lo scafo mangiato dal sale; giù nell’acqua torbida, senza pesci, agitata dalla corrente – minuscoli frammenti organici simili alla polvere improvvisamente visibile quando il sole irrompe nella stanza che si agitano avviluppandosi su stessi – e adesso guarda, la vedi la catena? Una corda di acciaio tesa fino allo stremo che finisce su un fondale denso e melmoso: venticinque, trenta metri di sabbia e olio; una pasta putrescente di merda e residui animali dentro la quale si trova di tutto, anche il cavo cui si è impigliata l’ancóra che adesso viaggia come su un binario, improvvisamente leggera, un artiglio senza peso, stranamente poetico a vederlo lì, dove Donald Miur – cinquantasette anni di cui quaranta trascorsi in mare, Capitano della flotta mercantile di sua maestà la Regina, una guerra passata nel Pacifico, quasi tre anni senza mai tornare a casa – ha ordinato di gettarla, senza un occhio al barometro (perché mai avrebbe dovuto?), sicuro che sarebbe bastata a garantire la rada anche in assenza di un motore; lui e la sua passione per gli scacchi, l’odore della cera d’api passata sul legno di rovere e un’ossessione per Dorothy, sua moglie – occhi celesti e viso a cuore, vent’anni meno ma che non ne dimostra trenta, una bambina dalle gambe lunghe – che adesso se ne sta seduta sulla branda a guardarsi i piedi mentre Donald dorme, il corpo finalmente scomposto dopo l’amore e neanche un pensiero all’ancóra che crede saldamente fissata a terra (dove lui l’ha voluta) e che invece scivola via senza trovare resistenza, perché il Capitano ha dato un ordine ma il mare non lo ha ascoltato.

Sono passate le due e il piazzale di fronte alla Fiera è spazzato dalle onde: onde altissime e bianche che si rompono in aria, frenate nel loro percorso in maniera brutale, e che ricadono a terra in schizzi violenti e gelati, mentre su Corso Italia si assembrano i primi capannelli di gente (a centinaia raggiungeranno il lungomare nelle prossime ore, richiamati in strada dagli uffici di piazza Rossetti; impossibile riconoscerne i volti nelle immagini di repertorio, o anche solo contarli).
Ma com’è possibile che questo accada? Com’è possibile che una nave magnifica e potente, creata per attraversare l’Oceano e le sue tempeste (tempeste atroci, il mare che si riversa in cielo, un unico impasto di elementi) affondi così, all’imboccatura del porto, in una giornata di sole (un sole alto e luminosissimo che colpisce la terra senza proiettare ombre, nessuno spazio per nascondersi, tutto offerto alla vista)?
Eppure eccoli, in un giorno di primavera del 1970: la nave parallela alle rocce, la poppa che cade pesante affondando nell’acqua e i soccorsi attoniti al di là della diga (soltanto un elicottero – piccolo, poco più che un insetto di vetro – si muove tra i rottami nel tentativo di raccogliere i naufraghi neri, coperti dalla nafta che dai motori si riversa in mare; una ferita aperta, scura come sangue arterioso) ed Enrico, in piedi davanti alla finestra, la fronte bollente incollata al vetro, un contorno di luce.


Nota: Nel tentativo di rendere in maniera più accurata possibile il naufragio della London Valour (realmente accaduto il 9 aprile del 1970 di fronte al porto di Genova) mi sono servita di alcune fonti: 9 aprile 1970, London Valour di Alberto Quarati, all’interno della raccolta Naufragi. Storia d’Italia sul fondo del mare, a cura di Marco Cuzzi, il Saggiatore, 2017; London Valour. La nave che affondò due volte di Carlo Gatti pubblicata sul sito web www.marenostrumrapallo.it. Non meno importante nel rendere l’atmosfera di quel giorno è stata la canzone di Fabrizio De Andrè, Parlando del naufragio della London Valour, all’interno dell’album Rimini, 1978.


Livia Del Gaudio (Volterra 1981) ha studiato e lavorato come architetto, ora insegna storia dell’arte nelle scuole superiori. Ha collaborato con importanti editori e festival letterari in veste di lettrice e consulente editoriale. Ha scritto racconti, alcuni dei quali pubblicati (La corda, Subway Letteratura, 2013; La prova in Faccia non mente, Diaforia, 2014; Come un frutto, Cadillac, 2019). Vive a Lecco ma è originaria di Genova.