Insomma questo tipo, questo stronzo, entra nella stanza numero 409, si siede sul divanetto a fiori e ci racconta delle poesie che sta scrivendo. Parlano tutte del suicidio di suo fratello, che si è buttato dal Golden Gate tre anni fa. «Il Golden Gate è famoso nella comunità suicida», dice. «Gli esperti lo chiamano un magnete per suicidi
Io sono al secondo anno nella mia specializzazione in poesia, e Jennie, la mia ragazza, si è impiccata tre mesi fa – tre mesi prima che questo buffone si sia presentato a lezione. È di passaggio tra un posto e l’altro, e si è degnato di fermarsi qui per un giorno per parlarci delle sue poesie a tema suicidio. È probabile che sia stato invitato dai professori per aiutare la ferita del programma a rimarginarsi o stronzate simili, ma nessuno ci ha detto perché questo tizio è qui. Si chiama Jeff, ovviamente.
«Il Golden Gate è il ponte da cui si gettano più persone in tutta l’A- merica», continua Jeff, infierendo quanto basta per mostrarci quanto ne sappia di suicidi.
La mia prima reazione sarebbe urlargli in faccia che studiare i suicidi non aiuterà nessuno e che se davvero lo pensa è la persona più stupida che abbia mai amato qualcuno che si è ammazzato. Ma non lo faccio. Me ne sto seduto sulla sedia e lo guardo mentre predica sotto le luci fluorescenti della classe.

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Una volta, durante la triennale, dieci anni prima che incontrassi Jennie, il nostro professore di Scrittura creativa ci raccontò la storia del suicidio di Sylvia Plath. Plath preparò un’ultima colazione con pane e latte e la lasciò fuori dalla porta della camera dei suoi bambini, poi li sigillò dentro con nastro adesivo e asciugamani piegati. Andò in cucina, accese il gas, ficcò la testa nel forno e inalò profondamente. Impiegò sette minuti a morire.
«Una cosa la possiamo dire, sui poeti», disse il mio professore. «Abbiamo il più alto tasso di tutti.» Era un uomo rotondo, col viso arrossato, e sembrava quasi orgoglioso.
Qualche studente – un idiota – chiese: «E allora i dentisti?»
«A chi importa dei dentisti?» rispose il professore. Ci mettemmo a ridere, e tornammo a parlare delle nostre poesie adolescenziali traboccanti d’angoscia e sesso.

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Jennie viveva da sola in una casa che faceva parte di un ranch in periferia. Un agricoltore del posto le affittava la casa e lasciava i suoi animali scorrazzare per tutta la proprietà. Quando parcheggiavo sullo sterrato che portava all’entrata, trovavo spesso Jennie in cortile, tutta presa a interagire con un cavallo o un asino, allungandogli cibo dal palmo della sua mano o cercando di montar loro in groppa e cavalcarli. Sempre senza successo.
Un giorno, dopo lezione, ci mettemmo a mangiare tortillas in cucina.
Ce ne stavamo sempre lì a mangiare patatine, in piedi intorno al bancone, cercando di raccapezzarci.
«Quindi cos’è il postmoderno?» le chiesi. Jennie era molto più intelligente di me e leggeva tutti i libri di teoria e critica.
«È una roba inventata», rispose, sgranocchiando una patatina.
«Una roba che la gente si è inventata quando ha smesso di imparare ad amarsi.»
«Nel senso, dopo la guerra?» le chiesi. A lezione, quel giorno, avevamo passato parecchio tempo a parlare di Wallace Stevens, W.C. Williams, e di cosa fosse successo dopo il modernismo e la prima guerra mondiale.
«No, in generale. Ogni volta in cui gli artisti vogliono cercare di capire perché non riescono a provare emozioni, ecco il postmoderno. Del tipo, significante, significato, e tutta quella merda. Voglio dire, a chi importa della semiotica quando stai provando a dire a qualcuno che lo ami, cazzo?»
Annuii, afferrando vagamente ciò di cui stava parlando. La nostra relazione era durata più di un anno, e per tutto quel tempo mi ero posto l’obiettivo di non mostrarle quanto fossi ignorante. Di conseguenza, annuivo molto e sparavo parecchi Uh-huh.
«Non puoi semplicemente etichettare il modo in cui ti senti, no? Le emozioni sono spontanee. Semplicemente, esistono. Ecco perché la poe- sia vera, reale, concreta è così importante. Perché il suono ha un significato che va oltre il fine».
Proprio allora, sentimmo l’asina ragliare dal cortile. Jennie l’aveva chiamata Harriet. Quando garriva, sembrava produrre una serie di risate ansimanti.
«Proprio così», disse Jennie, annuendo solennemente. «Proprio così.»

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Jeff appoggia la schiena sul divanetto a fiori, spaparanzandosi bene per mostrare quanto sia rilassato mentre continua a parlare del suicidio di suo fratello.
«Ovviamente, gli uomini si suicidano più delle donne», dice incrociando le gambe atletiche sovrapponendole completamente, come sa fare solo la gente in forma.
“Ah sì?” sparo. “Ah sì, cazzo, Jeffino? Immagino tu voglia sentirti dire che hai vinto. Che sei l’imperatore del cazzo delle statistiche inutili. Spero che tu legga così tanta merda sul suicidio che tuo fratello torni indietro, lo spero davvero, che salti fuori dal cazzo di oceano Pacifico ballando il waltzer come una sirena. Non funziona così? Tu continui a studiare, Jeff, e il tuo prezioso fratello smette di essere morto e poi puoi prenderti il tuo dottorato in necromanzia. Cosa ne pensi, coglione?”
Non dico niente di tutto ciò. Rimango seduto, cercando di capire come Jeff possa fare ricerca sul suicidio senza sentirsi come se qualcuno gli stesse camminando in su e giù sullo stomaco. Come possa trasformare il suo cazzo di fratello in una statistica, come se fosse un tizio a caso che si è buttato da un ponte in California.

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La polizia ha sequestrato la lettera lasciata da Jennie prima che io potessi vederla, ma ho saputo che conteneva due versi di Rilke, da Il libro d’ore: poesie d’amore a Dio.

Correte come un branco di cervi luminosi
E io sono oscurità, sono foresta.

Che è una descrizione concisa ma appropriata della relazione tra Jennie e il resto del mondo. Non avevamo mai parlato molto di Dio, ma Jennie si trovava in sintonia con la spiritualità della natura. La foresta, i cervi, la luce, e la visione poetica di una connessione spirituale tra le anime rappresentavano bene chi Jennie fosse.
Il fatto che questi versi significhino qualcosa oltre l’intellettuale, che decostruirli o analizzarli non aiuti a capirne il significato, è ciò che conta. Sono interi, completi, come il mondo naturale. Uno può riempirsi di teorie sugli atomi che compongono un pezzo di legno o un cervo, ma alla fine dei conti chi se ne importa degli atomi, quando la pelle prova sollievo a toccare il legno, e il cuore salta con ogni balzo leggero del cervo? Abbiamo solo bisogno di credere in ciò che proviamo.
Affidarsi alle emozioni è la scelta più umana, ed è tutto ciò che avete bisogno di sapere su Jennie. Potrei dirvi che era alta e magra, che aveva sei papere e tre polli, che mi ero innamorato di lei la prima volta che l’avevo vista nella cucina della casa di Katherine Anne Porter durante l’incontro tra gli studenti di Scrittura creativa all’inizio del semestre. Potrei dirvi cose tipo che le sono grato, che era una persona troppo bella per questo mondo o roba così.
Ma alla fine, ciò che davvero posso dire su Jennie è che metteva le radici intorno ai suoi sentimenti. Le sarebbe stato inimmaginabile agire contro ciò che provava. E a ben vedere, tutto questo vuol dire che Jennie ha fatto la sua ultima scelta a occhi aperti, consapevolmente. Ha deciso di non provare più niente.

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«Ma quindi perché gli uomini si suicidano più spesso?» chiede un idiota. Jeff lancia un’occhiata al soffitto. Ha dipinto in faccia uno di quei sorrisetti misteriosi, come se davvero dovesse pensarci su, come se trovare una risposta fosse un vero rompicapo.
«Ci sono molti motivi», risponde. «Per esempio, le donne sanno comunicare le proprie emozioni. Sanno chiedere aiuto. Ma la cosa interessante è che le donne fanno più tentativi degli uomini – circa due a uno».
Tutti annuiscono e mormorano tra loro e Jeff, questo cazzo di genio, a questo punto ha smesso di provare a nascondere un sorriso. È orgoglioso che la morte di suo fratello l’abbia portato ad avere questo bagaglio di conoscenza, così adesso può finalmente starsene al centro dell’attenzione. La morte di suo fratello lo sta ripagando bene, e ora gli è difficile smettere di sorridere.
Ho i pugni serrati come sfere, con le nocche imbianchite. Penso a Jennie, a quando sono andato a prendere la scatola di cartone con le sue ceneri e l’ho portata dall’agenzia di pompe funebri fino alle mani di sua madre; penso a quando le ho dato la scatola, grossa come un album di foto, e dentro c’era sua figlia, la persona che mi piaceva baciare.
«Okay, fermiamoci un attimo. Voglio leggervi una poesia su queste dinamiche di genere», dice Jeff. «Penso possa esservi d’aiuto».
Sto per uscire dal mio corpo. Sono così furioso che riesco a immaginarmi seduto nella nostra classe, a Flowers Hall, con la pioggerellina spettrale fuori dalla finestra e i versi sperimentali e accademici di Jeff che mi martellano in testa così forte che devo strizzare gli occhi per evitare che esplodano.

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Non avevo idea di chi fosse John Berryman finché non mi ero ritrovato in un corso intitolato Problemi nel linguaggio e nella letteratura durante il primo anno della mia specializzazione. Avevo comprato una sua raccolta di poesie da Barnes & Noble quando vivevo a New York, ma avevo semplicemente letto alcuni dei suoi Canti onirici, i migliori, e avevo ignorato tutti gli altri finché non ero tornato a studiare all’università.
«Berryman spingeva il parlante oltre le convenzioni del modernismo», aveva detto il professore del corso, un tipo bianco di una certa età. «È stato uno dei primi poeti postmoderni.»
«Nel senso che mentiva?» aveva chiesto qualcuno.
«No, ovviamente no», aveva risposto il professore. «Aveva semplicemente inventato il suo modo personale di raccontare una verità diversa».
«Sembrano stronzate», era sbottato lo studente. Ci eravamo messi tutti a ridere. Jennie seguiva quel corso, ed era scoppiata a ridere anche lei.
Quando sorrideva, la sua faccia s’illuminava tutta, e il modo in cui grugniva faceva ridere tutti ancora di più. Era adorabile il modo in cui lanciava i lunghi capelli castani in avanti e provava a nascondere il viso per l’imbarazzo.
Facendo ricerca per un’affrettata presentazione che dovevo fare in classe, tempo dopo, lessi che Berryman si era lanciato da un ponte a Minneapolis. Postmoderno o no, non era riuscito a prendere bene la mira e si era schiantato sulla riva del fiume, un ammasso di terra limacciosa. Fu trovato la mattina dopo, asfissiato dal fango.

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«Avete domande?» chiede Jeff non appena ha finito di leggere. È lui il poeta esperto di suicidi, e noi, il resto della classe, in molti conoscevano Jennie a malapena, siamo solo gli stupidi spettatori a questa fiera della morte.
Nessuno chiede niente. E a essere onesti, sarebbe praticamente impossibile fare domande sulle stronzate prive di senso che Jeff ha appena letto. La sua poesia non è tipo da essere letta ad alta voce e, francamente, neanche da essere capita. È il tipo di roba in cui l’autore crede di essere brillante e si aspetta che noi lettori ci spacchiamo la testa a cercare tutti i possibili significati di ogni pomposo verso o pausa.
Quando il silenzio si fa troppo denso e imbarazzante, qualcuno finalmente chiede: «Come si chiama il libro che stai scrivendo?»
«Si chiama Squarciato, Il trattato sulla luce», risponde, serio. A quel punto, comincio a ridere. Nessuno fa lo stesso, allora smetto, mi guardo intorno e mi rendo conto che questa gente pensa davvero di aver appena sentito un buon titolo per una raccolta di poesie sul suicidio del fratello del poeta.
E questa è la ciliegina sulla torta, il limite assoluto. Dopo esser rimasto seduto in questa stanza per novanta minuti, ascoltando le stronzate incomprensibili, fredde e pretenziose uscite dalla bocca di Jeff, ha anche il coraggio di sparare Squarciato, Il trattato sulla luce. Fa così schifo che mi viene da vomitare.
«Okay, io ne ho abbastanza. Vado in bagno», faccio. Lo dico davvero, ad alta voce, mentre mi alzo.
Mi trascino tra i corridoi per una manciata di minuti, con la rabbia che si affievolisce finché non mi sento triste per Jeff e suo fratello. Erano entrambi così lontani dalla realtà l’uno dell’altro, al punto che Jeff ha sbagliato tutto e si è semplicemente allontanato dall’immensità della perdita. Il dolore per la morte di suo fratello non sembra aver affatto reciso i contorni del cuore di Jeff, che invece si è messo a studiare la psicologia del suicidio per liberarsi del lerciume del proprio dolore. Così, adesso, con tutta quella conoscenza, la morte di suo fratello sembra solo un fatto della sua vita, come una statistica o una data o un nome scarabocchiato su una rubrica.

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Studiando poesia ho saputo di un sacco di poeti famosi che si sono ammazzati. Hart Crane, per esempio, si era gettato da una nave da crociera tornando dal Messico. Anne Sexton, nella sua macchina, nel suo garage. Paul Celan si era lanciato nella Senna ed era stato trovato giorni dopo da un gruppo di pescatori che bighellonavano sulla riva.
Ho saputo di quello che la gente chiama l’effetto Sylvia Plath, secondo cui i poeti sono più inclini alla malattia mentale che altri tipi di scrittori o artisti. E penso sia vero. Uno psicologo ha fatto un sondaggio sui poeti e i risultati hanno dimostrato una maggior predisposizione a depressione e disturbi dell’umore, in particolare tra le poetesse donne.
Per essere chiari, non ho saputo dell’effetto Sylvia Plath facendo ricerca.
Qualcuno mi ha detto di questo sondaggio dopo la morte di Jennie, e io ho fatto del mio meglio per ignorare completamente l’esistenza di uno studio del genere. Ma robe di questo tipo sono difficili da ignorare, perché la mente è sempre a caccia di tasche in cui ficcare il significato delle cose.
Stranamente, pensare che il suicidio di Jennie fosse probabile statisticamente mi ha fatto sentire meglio – come se, in un certo senso, dovesse succedere. Per qualche ragione cosmica, il dado era stato tratto anni prima che l’avessi incontrata e semplicemente erano saltati fuori tutti i numeri sbagliati. Jennie era una poetessa donna. Il che mi rendeva uno sfortunato passante sulle rive della marea nera della poesia, che, per qualche ragione, se l’era portata via con tutti gli altri.

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Non è successo granché, quando sono tornato nella stanza numero 409. Jeff aveva finito la sua lezione di poesia e farfalleggiava tra gli studenti, atteggiandosi e andando in estasi per ogni possibile affinità con gli studenti in fatto di libri e poeti.
Sarebbe una storia molto più interessante se dicessi che sono tornato dentro e gli ho tirato un pugno nel fegato o sputato in un occhio, ma non l’ho fatto. L’ho semplicemente compatito. Sarebbe stato troppo facile sfogare la mia rabbia sui vivi, su Jeff, sui miei insegnanti, o persino sui miei compagni di classe. Un sacco di gente in classe conosceva Jennie, e provavo una strana combinazione di rabbia e pena per il modo in cui se ne erano stati seduti docilmente intorno a me durante la lezioncina di Jeff. Così, invece di mettermi a litigare, ho guardato la scena da lontano, mentre Jeff se la diceva sull’importanza di quello o quell’altro scrittore, piegando la testa, gesticolando e allungando il suo indirizzo email agli studenti.
Jeff non ne sapeva né più né meno di chiunque altro. Si rifugiava tra le braccia della scienza per gli stessi motivi per cui qualsiasi altro animale si trascina a nascondersi nella tana quando è ferito. Anche se in questo caso gli alberi erano incredibilmente altisonanti, la scienza era comunque una foresta, un posto dove potesse curarsi mentre ululava per la sua perdita.
Certo che l’ho perdonato. Non avevo idea che potesse arrivare il giorno in cui io stesso sarei inconsapevolmente diventato Jeff. Le connessioni tra amore, memoria, e il passaggio del tempo sono difficili da stabilire. Si incrociano e aggrovigliolano come tracce lasciate dagli animali, senza destinazione finale. Ma non è questo ciò che i poeti devono vedere quando guardano l’oscurità? Una confusione accogliente? Non lo sapevo, e ancora non lo so. Per me, tutte le forme si fondono nel luminoso spazio vuoto lasciato da qualcuno che è balzato via, oltre il mio raggio, un cervo nella notte.

Il testo, in originale A Craft Talk, è di Colin Pope ed è stato pubblicato per la prima volta su Delmarva Review, vol. 11.
La traduzione per Bomarscé è a cura di Rachele Salvini.


Colin Pope è un poeta e critico di New York, ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie Why I Didn’t Go to Your Funeral con Tolsun Books nel 2019. È stato finalista a premi prestigiosi come Press 53 Award for Poetry, e altri. I suoi lavori sono apparsi su Slate, Rattle, Third Coast, Ninth Letter, Pleiades, e altre pubblicazioni. Insegna alla Oklahoma State University e collabora con le riviste Cimarron Review e Nimrod Journal.

Rachele Salvini è una dottoranda in Inglese e Scrittura creativa alla Oklahoma State University. Scrive sia in italiano sia in inglese; i suoi racconti in italiano sono stati pubblicati (o in arrivo) su Crack, Carie, inutile e altre riviste; in inglese, su Necessary Fiction, Sagebrush Review, Litro UK e altri. Ha vinto l’edizione 2020 del premio 8×8, si sente la voce. È anche traduttrice, e le sue traduzioni sono apparse (o in arrivo) su Lunch Ticket, L’Inquieto, Lunario, e altri.