La sapete quella del clown Pagliacci?
Chiaro, tutti la conoscono. La maschera del buffone triste, la lacrima che solca il cerone sulle guance di Pierrot per colare sul pavimento dello studio di uno psichiatra. La stessa barzelletta mi sovviene ogni volta che l’occhio cade sul quadro di Velasquez appeso alla parete di destra, l’insano sorriso del giullare Calabazas.
Le tante trasformazioni di questo posto hanno ignorato quella copia d’autore davvero ben fatta, quasi non fosse lì; come se avessero deciso di trattarlo da elemento strutturale portante.
E potrebbe anche esserlo, per quello che ne so. Siamo in molti a sperare che un giorno, la nostra dedizione nell’occupare gli stessi tavoli, possa essere ricompensata con un pezzetto di parete. Una foto incorniciata, stampata su un sottobicchiere, una targhetta in ottone sopra un tavolo.
Quanti ne ho incontrati di quei pagliacci tristi! Troppi.
Non ho idea di quanti siano troppi, ma sono più di quanti dovrebbe mai vederne uno che alla vita ha chiesto solo stanze buie e bicchieri mezzi pieni di un qualunque distillato di canna da zucchero. Ho anche raggranellato una dignitosa quantità di donne e ho appreso a mie spese, a suon di pianti, inciampi ed errori, essere un campo nel quale si ottiene di più chiedendo il meno possibile, l’antitesi perfetta del rum. Posso dirmi un uomo fortunato, più fortunato di tanti altri, dunque abbastanza fortunato. Non ho mai patito la fame, mai mendicato, ho visitato molti letti e ancora più tavoli, e una volta mi sono anche innamorato. Una sola, di cui sono stato immediatamente certo. Una sola, per la quale valesse davvero la pena scendere dagli alberi e diventare un essere umano, per la quale mettere la testa a posto invece che usarla come qualcosa di orientabile da piazzare sul collo: ma questa è un’altra storia. Una storia non tanto più lieta, a pensarci. Non ho sentito molti finali lieti, nessuno che venisse da questa parte di mondo; voci di fuori, inverificabili.
Nessuna bella storia è mai accaduta a Chinatown. Tante storie interessanti, qualcuna davvero divertente, ma nessuna che lasciasse qualche dubbio sull’epilogo. Un ghetto sorto due secoli prima o giù di lì, per ospitare gli immigrati asiatici venuti a costruire ferrovie ed erigere pali telegrafici. Nel tempo, il quartiere delle lanterne aveva scavalcato il suo perimetro di mattoni allargandosi come una pozzanghera bisunta, ingoiando altri isolati, altre strade, altri colori di pelle. La giudecca spalancò i battenti a chiunque avesse abbastanza soldi in tasca per tirar l’alba, pagarsi la compagnia di qualcuno e qualche ghiotto boccone d’amore esotico.
Un proliferare micotico ben più frenetico e rigoglioso di qualunque crescita urbana, tutt’intorno la città, dentro la città, che la ridusse a un misero e roseo tumore nel tessuto cicatriziale di un ghetto sconfinato. Il quartiere era diventato città prima che il cordone delle autorità potesse alzare gli argini e comprimere la sua inarrestabile avanzata. All’interno di Chinatown erano sorti altri quartieri, altri conglomerati, altri circondari, moltiplicati come batteri all’interno del cavo orale. Ogni comunità tentò di delimitare il proprio angolo d’urbe, trasformandoli in exclavi anarchiche del paese da cui erano fuggiti oggi o cento anni prima. Con l’aiuto dei decenni il magnete cittadino raggiunse ogni latitudine, destinazione finale di rotte partite da ogni angolo del globo. Divorava i sogni con la stessa facilità con cui faceva imputridire la carne. Chinatown era un enorme lago con un infinito numero di tributari, deposito d’ogni tipo di disperazione nota all’uomo, e ne produceva anche di più di quanta ne accogliesse. Certi quartieri mostrano da sempre livelli di riproduzione fuori scala, come non vedessero l’ora di trasmettere il loro patrimonio genetico o non sapessero sollazzarsi senza fecondarsi.
I poveri non temono mai la riproduzione, pur sapendo di consegnare nuovi pacchetti generazionali alla medesima disperazione patita dai genitori per tutta la vita; convinti che una bocca in più da sfamare significa al contempo un paio di braccia in più per tirare il carro. Vero solo in parte.
I ricchi, al contrario, preferiscono sprecare il seme.
La progenie portava sempre a ineluttabili beghe testamentarie, alla condivisione di conti, nei casi peggiori.