Era arrivato il crack, anche la televisione stava imparando a far ridere, e la gente imparava a ridere di lei. Fu allora che lo Hyena Ridens divenne per molti l’apice di una carriera ristagnante, quelle carriere che non si lasciavano imporre una direzione, costellate di fallimenti ottenuti versando sangue e lacrime con la stessa pena richiesta dai capolavori. Abbandonata la castrante necessità di accontentare il pubblico, arrivarono monologhi tra i più interessanti. Nessuno aveva più molta voglia di ridere, pochi riuscivano a divertirsi con qualcosa che non fosse contemplare l’infelicità altrui.
Un tale si esibiva con un’uniforme della RAF della seconda guerra mondiale. Due ore la settimana di vilipendi a generali e presidenti, tutti sempre impegnati a cercare qualcosa o qualcuno da scopare nei posti più impensabili: Kissinger sifilitico dimenticato a Saigon dopo la ritirata, Kennedy erotomani che trattavano con mafiosi italiani mentre si facevano spompinare da procaci hostess di voli privati, lamentandosi delle puttane incapaci di succhiare il cazzo senza far sentire i denti, e vaneggiando di necrofilia sui cadaveri di Olivia de Havilland e Zsa Zsa Gabor. Ricordava i fratelli Marx, se le loro battute fossero sopravvissute al ventesimo secolo.
Lo presentavano come Sergent Pepper, non ho mai saputo il suo vero nome, ma il suo recitato era brillante. Riusciva sempre a regalare l’impressione che un’orda di elmetti e manganelli potesse sfondare la porta e portarselo via da un momento all’altro, ed era esattamente ciò che voleva. Forse, l’avrebbe anche ottenuto se qualcuno se lo fosse filato. I tribunali avevano smesso di perseguitare i comici che corrompevano la pubblica moralità non appena gli artisti impararono a beneficiare delle potenzialità pubblicitarie dei processi per entusiastica corruzione della pubblica moralità. I tassisti non si vergognavano più di caricare i travestiti, capezzoli nudi ottennero finalmente la legittima rappresentanza in televisione e il veto alle più bieche volgarità decadde, ammesso che dalle nostre parti fosse mai davvero entrato in vigore.
E noi, potemmo smettere di appellarci alla fantasia per immaginare cosa ci fosse sotto il vestito di Jane Russell.
Il Sergente Pepper sembrava un tipo normale, un professionista frustrato come tanti. Sempre vestito bene, nessuna fede al dito e una bella macchina. Non era più molto giovane, ma neppure una cariatide. Pensavamo tutti fosse un’agente immobiliare che s’era messo a frugare nei cassetti per riesumare le velleità artistiche che vi aveva rinchiuso a quindici anni. Lo faceva gratis, come quasi tutti, con la differenza che lui non elemosinava mai niente. Alla fine del pezzo, riprendeva le sue cose, si cambiava, saliva in macchina e partiva, senza fermarsi a bere o indugiare in qualche stronzata; una notte, arrivato al semaforo, fece inversione, riprese velocità, sfrecciò di nuovo davanti al locale e andò a schiantarsi contro l’edificio di mattoni all’incrocio. Era un’architettura del secolo scorso, una vecchia cartiera conquistata dai siamesi, un palazzo che aveva l’aria di poter crollare con uno spintone. Eppure era in piedi, con un piccolo foro poco prima dell’angolo. Una parte di macchina era riuscita a proiettarsi all’interno, il resto si scompose in frammenti proiettati in ogni direzione.
Fu allora che iniziai a distinguere le prime note del grande requiem d’assurdità che risuonava da decenni, benché fossi ancora lontano dal maturare la consapevolezza d’esserne parte. E corale, per di più: una misera nota in una dedecafonica e inascoltabile composizione sperimentale.
Forse bevevo troppo. Brandy, tutto poteva essere. Ne avevo visti già parecchi, nelle vesti di ammuffito frequentatore di cabaret, ma senza farci troppo caso. Quell’anno, dopo la morte del Sergente, venne chiuso tre volte. Un tizio venne beccato a vendere crack negli stessi cessi in cui due ragazzi – che avevano attraversato la sala senza chiedersi in che posto fossero entrati – vennero ritrovati con le labbra cianotiche e l’ago nel braccio; troppa stricnina nella roba. Dorabella, una cameriera di ventidue anni assunta da pochi mesi, si tagliò le vene nella vasca da bagno; Yaacov, popolarissima caricatura di Shylock, ashkenazita di settant’anni suonati, uno dei pochi passati di quel palco che riuscì comunque a fecondare un embrione di carriera e intascarsi qualche soddisfazione, venne arrestato. Solo un paio ebbero moderati trionfi, culminati in talk show mattutini sulla radio nazionale. Yaacov venne processato per l’accusa di violenza sessuale su una bambina di nove anni e molestie su altre due, poco più grandi. Riuscì ad entrare in aula con una pistola da palmo Derringer calibro .41 vecchia di cent’anni, ma perfettamente funzionante. Prima che il giudice sciogliesse l’udienza e congedasse i giurati per una delibera già scritta, si alzò in piedi, pronunciò un versetto in yiddish dal Talmud e si sparo sotto il mento. Ne parlarono tutti i giornali.
Da qualche tempo, chi avvertiva il bisogno di farsi due risate aveva imparato a restarsene sul divano a guardare il Sathurday Night Live.
Dalle battute tristi alle morti violente il passo è stato terribilmente breve. L’ex Hyena Ridens riprese il nome di un’altra plumbea urbe sovietica e la veste che gli aveva permesso di ritagliarsi una nicchia nel pantheon delle peggiori bolge. Seguirono brevi esperimenti con nomi privi di mordente, per poi adottare la definitiva denominazione di Le Pendu – L’Appeso. La porta d’ingresso venne dipinta per trasformarsi nella carta dei tarocchi da cui prendeva il nome.
Pierrot le fou fu l’unico di cui andai al funerale. Per quanto ne sapessi, poteva anche essere l’unica morte che avesse scomodato un sacerdote. Pierrot le fou si faceva accompagnare al piano, e il pianista se lo portava da casa. Qualche volta con una violoncellista che si faceva, ma gli archi emanavano un’aura soporifera poco funzionale. Lo conoscevo abbastanza bene, era totalmente sottomesso alla dipendenza da effetto scenico, qualunque cosa facesse, a costo di rendersi ridicolo. Si portava sempre un paio di dadi in tasca per esplicare ritorte metafore sul caso e l’aleatorietà della vita. I successivi proprietari erano riusciti a far sloggiare gli inquilini degli appartamenti ai piani superiori del palazzo, acquistandoli uno per uno nell’arco di trent’anni, coi metodi e i tempi di una campagna militare, sottraendo il terreno da sotto le suole del nemico, metro per metro. Pierrot – Jonathan si chiamava – viveva lì con sua moglie. Li trovò la figlia del proprietario dopo aver fatto scardinare la porta, a letto da tre giorni, abbattuti da manciate di fenobarbital, scotch e torazina. Il bambino era quasi morto d’inedia.
Vivo per miracolo, ma sopravvissuto per sfortuna.
In trent’anni siamo arrivati a questo punto. Avevo ancora una vita da vivere quando ho varcato per la prima volta la soglia buia, l’oscurità e suoi componenti ignorati da ogni calamità che si sia fatta strada tra i tavolini rotondi. Migliaia di sfortune che comunque non fecero volare via nessuna tovaglia, cambiato il colore delle pareti, divelto le assi del palco, allargato la piccola fossa per l’orchestra inutilizzata sul margine sinistro. Solo le candele erano state spodestate per lasciare spazio a delle loro orribili repliche elettriche.
I morti erano solo un altro argomento di conversazione, ma nessuno aveva mai avuto il coraggio di scherzarci sopra. Neanche Hermann, Topso, Flipper, Laurence Stearn, il più antisemita tra i giudei, autorizzato a investire la sua confessione di qualsiasi abominio, gente rimasta a mollo nella tristezza di quel palco per quarant’anni, osò mai scagliare un dardo, un morbido sberleffo che potesse dissacrare la liturgica memoria di chi si era tolto la vita tra una risata mancata e l’altra. Come se stancarsi di fare qualcosa, come dover vivere un’altra giornata, potesse avere qualcosa di sacro. Pierrot e Linda non lasciarono alcun biglietto. Nessuno seppe mai perché decisero di uccidersi in quel modo, perché non diedero il bambino a qualcuno, perché una coppia infelice seguita a rimanere salda nonostante il pericolo di deflagrazione. Famigliari e investigatori frugarono ogni anfratto alla ricerca di un biglietto o indizio nascosto che esaurisse la loro curiosità. Non è detto che tutti ci tengano a render conto ai posteri del perché si sono chiamati fuori. Per quanto si possa indagare, ci si ritrova sempre con una manciata di ragioni plausibili, tutte valide. Soldi, lavoro, matrimonio, carriera, amore, università, il desiderio frustrato di far ridere la gente, di diventare Lenny Bruce, Han Solo, Montgomery Clift, Saint-Just, Tamerlano.
Non sembra essere più così tanto importante. Ce n’è stato qualcun altro dopo. Ricordo solo quello della metropolitana. Troppo distante dal locale perché possa scavargli un posticino nella mia memoria. Anche i perché non hanno più un posto riservato apposta per loro; le ragioni e le forze che innescano gli eventi assumono rilevanza solo se intercettano la mia traiettoria, molto meno interessanti quando agiscono sulla vita e sulla morte di qualcun altro. Ho sprecato troppo tempo a pensare alla morte degli altri, a pormi interrogativi circa luoghi, eventi e circostanze che hanno portato al tragico termine delle loro vite. Alla fine, si arrivava sempre alle loro mani, al gesto compiuto che inghiotte per sempre ogni spiegazione. Temo che la mano che scrive queste righe non faccia eccezione. Il cabaret avrà mai la nausea di tutta questa carne rancida? L’abitudine alle domande di corredo è dura a morire.
L’unica cosa che valga la pena chiedersi è: chi sarà il prossimo?
Credo d’averne un’idea.
Giacomo Cavaliere è studente di Storia presso l’Università Statale di Milano. È in procinto di concludere il suo primo romanzo e ha scritto molti racconti di vario genere, con una propensione all’utilizzo di circostanze, eventi o persone realmente esistite in interazione con ambienti e personaggi di finzione, manipolandoli in scenari di contro-fattualità.