Le due cose fondamentali della vita, dopotutto,
sono evitare il dolore e dormire bene la notte, giusto?

Azzeccare i cavalli vincenti, Charles Bukowski

Milioni e milioni di stelle frammentavano il cielo in minuscoli pezzi di vetro e idrogeno in fusione nucleare; lontana, una campana suonava cupa la mezzanotte, fredda e inclemente, e i rintocchi rimbombavano per tutta la valle. Sotto quelle stelle sedevano contro una roccia tre uomini congelati, stanchi, feriti, disperati, calati nel pozzo oscuro della guerra e lontanissimi miliardi di anni luce da casa. Due di loro, Alexander e Jacques, si erano arruolati nelle brigate per scelta personale; il terzo, David, era un corrispondente di guerra (di lui si diceva conoscesse Hemingway e che gli avesse insegnato a scrivere, ma non confermò o smentì mai questa storia, e così divenne vera o falsa a seconda del caso).
La piccola carovana di tre automezzi con cui stavano attraversando un ponte era saltata in aria insieme al ponte stesso, portando in offerta ai famelici dei della guerra trenta uomini e cento chili di calcinacci; e così i tre si erano trovati sotto quelle stelle e contro quella roccia in mezzo al nulla per passare la notte – sperando di sopravviverle. 
Alexander era arrivato in Spagna un giorno di maggio, ormai un anno fa, e si era arruolato perché credeva in un’ideale di uguaglianza e pace; Jacques era innamorato, e l’unico suo ideale era quello di morire per far arrivare alle orecchie di quella donna traditrice la notizia della sua esplosione, così che lei potesse pentirsi e, forse, tornare ad amarlo. Jacques ancora non era morto, ma sapeva che ben presto lo sarebbe stato: una ferita terribile gli bruciava sul fondo della pancia, rossa come il vino di una volta, che beveva d’estate, seduto sulla Promenade, quando il mare luccicava come occhi pieni di pianto, come la canna di una mitraglietta al sole.

«E così tu, David, sei italiano?», chiese Alexander.
«Esattamente. Ma sono spesso in altri posti.»
«E com’è l’Italia?»
«Bella.» 
«Tutto qui?»
«Purtroppo l’Italia è sempre rimasta indietro su ogni faccenda. Il nostro Medioevo è finito nel secolo scorso e la cosa più moderna che abbiamo è una dittatura.» 
Jacques si sforzò di ridere, ma uno sputo rosso vermiglio gli impedì di farlo – in un’altra estate, con un bicchiere in mano, sarebbe stata una ristata bellissima.
«E tu, Alexander, cosa racconti?», chiese David.
«In che senso?»
«Se mai un giorno tornassimo a casa, cosa ti piacerebbe fare?»
Alexander sorrise come un bambino.
«Tante cose», rispose.
«Dinne una.»
«Forse andare al cinema. È tanto che non ci vado. Sedermi lì al buio e non pensare a niente. Quando ero più piccolo c’erano tre ragazzi, nel paese dove vivevo, che mi picchiavano ogni giorno. Dopo aver preso la mia razione di botte andavo al cinema e lì tutto tornava tranquillo, tutto diventava… bello.»
David sorrise, e Jacques, nel suo angolino, con la mano insanguinata a premere la pancia, provò ad accompagnarlo.
«Tu, invece – continuò –, cosa vorresti fare, David?»
«Ah, io mi accontenterei di scrivere. Magari anche di voi. Per non dimenticare, sapete…»
«A volte è meglio farlo – commentò Jacques –, soprattutto in guerra e in amore.»
David rise, ma fu interrotto da Alexander: «Perché, tu che sei uno scrittore dovresti saperlo, la guerra e l’amore vengono spesso accostati? Paragonati, ecco.»
David ci pensò su un po’, mentre Jacques sorrideva come se conoscesse la risposta.
«Credo sia una questione di prospettiva – disse – di punti di vista. Sai, sono molto simili, dopotutto. L’amore e la guerra distruggono le persone.»
Jacques annuì come se fosse esattamente la risposta che si aspettava, poi aggiunse: «Forse per fare la guerra gli uomini si sono ispirati a qualche terribile e bellissima storia d’amore. Del resto, noi siamo uomini, non soldati.»
«Anche in guerra?», chiese Alexander.
«Anche in guerra», disse Jacques.
«E tu, Alexander – chiese David –, sei mai stato innamorato?»
«Oh, sì, tanti anni fa. Lei vendeva fiori a Londra, e io andavo sempre a comprarli per riportarglieli due ore dopo in regalo. Mi ricordo che giravo a piedi tutta la città per prendere tempo.»
«E come è andata a finire?», chiese Jacques reprimendo un gemito.
«Ha chiuso il negozio e si è trasferita in America. Non mi disse niente, un giorno arrivai e non la trovai più. Da allora non ho saputo più nulla. Immagino si sarà sposata con un americano e abbia avuto due figli biondi.»
«Era bionda?», chiese David.
«Come il grano. Era molto bella, l’amavo davvero. Ma credo non lo capì mai.» 
I tre uomini rimasero in silenzio per un po’, assorti nei loro pensieri. Chissà dove, nel buio dietro l’orizzonte, la campana interruppe la quiete, battendo i rintocchi delle tre. Rimbombarono per tutta la valle.
«Sono già molte ore che siamo qui», fece Jacques.
«Quella campana sembra un presagio di morte.»
«Forse lo è», ribatté il francese. I tre tacquero di nuovo.

La campana foto
© Luca Brunetti

«Quindi tu, Alexander – fece David a un certo punto –, ti sei arruolato per la libertà, dico bene?»
«Dici bene.»
«Non saremo mai liberi – disse Jacques tossendo – non finché combatteremo altri uomini, privandoli della loro libertà.»
«Perseguire la libertà è lo scopo più nobile di tutti», disse Alexander.
«Rassegnati – fece Jacques –, l’uomo ha sempre fatto la guerra e sempre la farà. È nella sua natura.»
«E tu, invece?»
«Io sono un corrispondente di guerra. Etiopia, Spagna… – disse David – scrivo quello che vedo.»
La campana rintoccò le quattro; la notte era blu scuro e gialla, una bandiera stesa sopra le loro teste. Jacques pensò a una vecchia poesia mentre Alexander rifletteva sul suo sogno, trovandolo puro e incontaminato e non capendo come mai gli altri non lo condividessero, finché non capì che si sogna sempre da soli, la notte, e così anche a occhi aperti.
«E tu, Jacques?», chiese David dopo una lunghissima pausa, in cui solo i rumori del mondo interrompevano un silenzio così pacifico che in altre condizioni sarebbe stata l’epifania di un’infanzia felice e spensierata a correre in pantaloni corti fra i covoni di fieno.
«Io cosa?»
«Sei mai stato innamorato?»
«Sì, e lo sono ancora. Sono innamorato, furioso e anche ferito.» 
«Sei come Orlando», disse Alexander.
«Già – rise Jacques sputando sangue –, è il motivo per cui mi sono arruolato.»
«Cioè?»
«Vedete, io amo questa donna, bellissima tra l’altro, e per due anni l’ho amata con tutto me stesso senza risparmiarmi mai. Lei mi assecondava, facevamo l’amore ogni volta che ne avevamo l’occasione… e tuttavia non mi ha mai amato.»
«E… perché?», fece Alexander.
«Non lo so. Diceva che le sarebbe piaciuto innamorarsi di me, ma che non ci riusciva.» 
Jacques si fermò, prese un lungo respiro e cercò di reprimere un colpo di tosse, poi si strinse la ferita e grugnì. 
«Credo che il suo problema fosse pensare all’amore come una cosa che ci si impone, e non come una cosa che capita. Comunque, anche se non mi amava, io non l’ho mai fatta andare via, perché preferivo averla ed essere ferito che non averla proprio.»
Alexander abbassò il capo e non aggiunse altro. Per rispetto, o forse perché non c’era proprio niente da aggiungere.
«Sì, mi sono fregato da solo e arruolato perché ovunque lei sia le giunga notizia della mia morte, così che possa odiarsi per quello che mi ha fatto, e magari innamorarsi. Non condannatemi se l’amo.»
Jacques pronunciò le ultime parole a fatica, e fra un colpo di tosse e l’altro cominciò a respirare con affanno.
«È una cosa da poeti», disse David.
Jacques non rispose, ma il sorriso che fece fu più eloquente di qualsiasi parola. 
«Come hai detto che ti chiami, tu?», fece Alexander.
«David.»
«No, dico di nome, ahah; non sono ancora così moribondo da delirare…»
«Hai ragione, scusa. Mi chiamo Max.»
«Un nome strano per un italiano…»
«Già», rispose Max ridendo. Anche Jacques sorrise, ma oramai non aveva più le forze neanche per quello.
«Tutto bene?», chiese Alexander.
«Secondo te?» disse Jacques increspando le labbra. «Sto morendo, Alexander».
«S-sì, scusa, io…»
Jacques tossì, poi cercò di dire che andava tutto bene, ma non ce la fece. 
«Io…  – disse appoggiando la testa contro la roccia – se non vi dispiace, proverei a dormire un po’…»
Gli altri due non dissero niente; si guardarono soltanto, rassegnati. La campana, lontanissima, batteva le cinque; un gallo, chissà dove, cantava allegro senza sapere della guerra, della morte, dei sogni e delle donne perdute e passate.


Alessandro Mambelli è nato a Cesena nel 1997. Si è laureato in Lettere moderne a Bologna e ora frequenta la magistrale di Giornalismo a Parma. La scrittura è la sua più grande passione, e spera un giorno di farne anche un lavoro. Per il momento, diversi suoi racconti e articoli sono apparsi su varie riviste online.