Della ragazza si poteva vedere solo la nuca, e cinque fiori emergevano dal ricamo sulla cuffietta. Il ritratto, se così si poteva chiamare data l’assenza di volto della ragazza, era firmato Carl Moser, pittore bolzanino esistito in questo mondo a cavallo tra Otto e Novecento.
I capelli nerissimi della ragazza lucevano alla base della nuca raccolti in una crocchia semplice e lineare, di forma oblunga e lievemente concava al centro. Andrea contò un sesto fiore sul profilo destro, a nascondere un probabile orecchio. 
Le spalle della ragazza erano brevi e strette, leggermente spioventi, rilassate e morbide. Le spalle di una quindicenne, non può essere più vecchia. Anche la guancia paffuta nascosta dalla cuffietta non può che essere di un’adolescente. Andrea la intravedeva oltre la ragnatela di fili intessuti a creare piccoli e regolari quadrati vuoti al centro. 
Nell’atto di osservare, Andrea ripensò a martedì. Quel martedì, che era coinciso con il primo di aprile, aveva lasciato tutto il suo mondo. Martedì le pianure e le calure erano scomparse e si erano susseguiti in linea fiumi e torrenti, colline, valli, montagne, strette, chiuse, canali, dirupi, altipiani e di nuovo valli e montagne e fiumi e torrenti, sotto un cielo poco credibilmente indaco e un sole troppo arancio. Ora stava diritto, fronte quadro, a guardare la nuca. Era felice che mancasse il vetro di protezione alla tela: nessun riflesso interferiva con i suoi pensieri. Martedì se ne era andato e non sapeva se sarebbe tornato. Avrebbe voluto essere amico della giovane ritratta priva di un viso, e in un certo senso lo divenne, ecco dunque la sua prima nuova amica nella nuova città. Così disse tra sé e sé.
Avrebbe voluto appoggiare il capo su quelle brevi spalle. La giovane ritratta custodiva certamente uno o più segreti, e per questo non poteva girarsi e guardare negli occhi i propri osservatori. Per lei, forse, altro non erano che voyeur. Andrea soffrì al pensiero di far parte di tale schiera e pensò di andare via. Fece un passo indietro, ma non se ne andò, pensò invece a martedì. Martedì se ne era andato. Martedì era morto, e non sarebbe tornato. Non lui, ma martedì. Martedì non è una persona. Questa qua è una persona. No che non lo è, e se anche lo fosse stata in origine, ora è morta, con ogni probabilità da un secolo, e non è che un segno di colore su tela. Ah, olio su carta, ecco. Però sono meno di cento anni che è morta. Aveva quindici anni, e il quadro è del 1900 tondo tondo. Quindi sarà nata nel 1885, e sarà morta negli anni Sessanta, diciamo. È morta cinquant’anni fa. Sua nipote potrei portarla a bere qualcosa. No scherzo. Adesso è aprile, tra poco vado in vacanza. 
I fiori rimasero fissi e immobili, il pensiero di Andrea meno.

Andrea al museo ebbe un piccolo ictus e la parte sinistra del corpo ora non andava più un gran che.

In un fine pomeriggio del mese seguente, maggio, Andrea era di fronte a una delle tante finestre della sua nuova casa, seduto sulla sua nuova sedia, a rotelle, e guardava il verde umido, umidissimo, degli alberi che in quel maggio si ricoprivano della luce filtrata dalla pioggia e dei larici che mettevano gemme. Una strana inaugurazione per una nuova casa, stare solo alla finestra su una sedia a rotelle. Eppure l’avvertiva in un certo senso appropriata: era l’unica possibile, se voleva abitarvi.
Alle tre di quella notte, steso a letto, Andrea cercava online una riproduzione del ritratto. Era senza titolo, e questo non lo aiutava. Trovata l’immagine, dopo lunghe ricerche, si addormentò. Giunto il mattino, la stampò con la sua piccola stampante nuova e la attaccò con una puntina a una delle pareti bianche del soggiorno, all’altezza del suo sguardo, quindi circa a un metro e mezzo dal pavimento.
Andrea aveva deciso di non tornare nella sua città, nonostante l’ictus. Voleva quella casa nuova, e solo quella, nella nuova città. La madre era ripartita da un paio di giorni dopo una lunga visita. Era solo da quarantotto ore, e la cosa non gli dispiaceva. Non capiva il perché ma la sua nuova condizione, l’intera situazione di disagio, pericolo e solitudine, non gli dispiaceva. Era sereno. Nel frattempo i pollini rimestavano l’aria fuori dai vetri e il sole si poneva a est, oltre un pendio azzurrognolo. Erano le 7:30 del mattino.
In una sera di fine maggio, e dopo che l’infermiera se n’era andata (ora Andrea riusciva a mettersi autonomamente a letto), dunque tornato solo, Andrea raccolse dal pavimento un libro mai finito e se lo appoggiò in grembo. Quella sera si addormentò così, sulla sedia a rotelle, con il libro sulle gambe e il capo cascante. 
A svegliarlo fu il torcicollo e fuori c’era già l’alba. All’alba niente pollini, osservò, ormai la stagione è finita. Il vento era pulito e raschiava la nebbia dai canaloni delle montagne. Decise di chiamare la ragazza del ritratto, senza occhi eppure unica testimone del suo ictus, con il suo nome, Nuca. Nemmeno ora, che stava alla sua parete e all’altezza del suo potenziale reciproco sguardo, Nuca poteva guardarlo, era la muta sorvegliante dell’andamento della sua convalescenza.

Nuca
© Francesca Galli

Ai primi di giugno, in giorni che promettevano l’estate, la pioggia scrosciava dura contro i vetri, in un’alba grigia, dall’opaca evoluzione del tempo. Avrebbe dovuto arrivare il sole, la pioggia cessare nella notte, ma è così, oggi il sole è in ritardo. Si issò sulle braccia puntando i pugni chiusi sul materasso morbido, si spostò facendo strisciare il bacino sulle lenzuola e con uno dei pochi passi di cui era capace raggiunse la sedia a rotelle che lo avrebbe portato in cucina. 
Bollì un uovo: riusciva a versare l’acqua nel pentolino e poi scolare l’uovo. Prese del pane in cassetta ma non lo tostò, prese burro e marmellata e li stese sul pane molle appoggiandoli sulle ginocchia.
Aveva comprato appositamente una macchina per il caffè americano, caffè che non gli piaceva molto, ma la macchina era comoda, non la si doveva mettere sui fornelli, almeno quella: era appoggiata a terra, con il cavo a percorrere verso il basso la distanza dalla presa in cui aveva infilato l’adattatore. Versò la polvere di caffè nella macchina, un caffè dall’odore acre che non gli piaceva, e aspettò.
Appoggiò poco dopo la sua colazione sul tavolino da caffè tra i divani, troppo basso, ma certamente migliore della troppo alta isola della cucina che rappresentava l’unico alternativo piano d’appoggio: la sua fronte arrivava a toccarne perfettamente gli spigoli, gli sgabelli erano obiettivi impossibili da raggiungere.
L’infermiera entrò in casa trovandolo chino sul tavolino da caffè e sorrise. Lo aiutò a lavarsi in silenzio, ed erano pronti per andare al museo.
L’infermiera lo lasciò davanti a Nuca e proseguì il giro del museo.

Eccoci qua. Sempre giovane e meravigliosa. Questo termine è esagerato, non sei meravigliosa. Sei graziosa. Si stupì dell’emozione che provò nel rivederla e respirò piano, quasi si dimenticò di respirare. Domani avrebbe ripercorso le spranghe della palestra di riabilitazione, le avrebbe strette e ci si sarebbe trascinato portando il peso del piede morto. Prima ci sarebbero stati lo stretching, l’allungo dell’elastico, le torsioni lievi. Allo stesso modo, Nuca sarebbe sempre stata in procinto di voltarsi, di iniziare a fare qualcosa senza mai farla. Magari di iniziare a preoccuparsi di trovare marito. Tutto ciò che era compreso tra i due estremi del banale corpo che si issava sulle spranghe della palestra per la riabilitazione e il futuro ormai passato di Nuca era semplice compromesso. Eppure, quei due estremi erano un inganno, perché la vita vi scorreva tutta in mezzo, e nessuno dei due poteva dirsi reale: né il mero corpo, né l’astrazione. La vita in mezzo è invece reale, è compromesso reale. Tale pensiero lo rassicurava. Tuttavia, dubitava della sua esattezza, e non riusciva a convincersene. Aveva quasi finito il caffè ma non voleva andare via.
E quindi, Nuca fa solo parte del grande inganno. Finì l’ultimo sorso di caffè e così decise di declassarla.Ciononostante, anche quando Andrea poté finalmente tornare a camminare e a prepararsi il caffè con la moca (arrivò settembre e il sole splendeva sempre, quasi a mostrare una partecipazione alla sommessa gioia di Andrea), Nuca rimase appesa in posizione d’onore, ora in una cornice rigorosamente senza vetro, ma posta come in origine a solo un metro e mezzo dal pavimento del soggiorno. E la riproduzione, sì, era pur sempre sgranata.


Paola Marcolini, classe 1990, è nata e vive a Trento, dove lavora come editor freelance. Prima di iniziare a lavorare nel mondo dell’editoria, è stata assistente alla sceneggiatura e alla regia di Razi Mohebi, regista di origini afghane che viveva a Trento. Nel frattempo, ha scritto la biografia di Mohebi, che è ora alla (ardua) ricerca di editore. Su Bomarscé #5 ha pubblicato un suo racconto dal titolo 46° Parallelo.