Cara mamma, caro papà,
io vi voglio dire prima di tutto che non è vero. Io credo che voi lo sappiate già, ma so che vi diranno altro, e a forza di sentirvelo dire magari ci credete.
Mi vergogno troppo. Vi faranno passare un sacco di merda casini per colpa mia, e io non la riesco a reggere ‘sta cosa. Voi non ve lo meritate. So che spesso scaz litighiamo, e vi faccio disperare, e non ve lo dico mai, ma penso che siete meravigliosi, i migliori. E non è giusto che pagate per i miei errori, non dovete soffrire anche voi la cattiveria di questa gente. Quindi me ne vado. Sono sicuro che starete meglio, voi e anche Giacomo. Io spero che non gliela facciano pagare a lui. Per favore, pensateci voi a lui.
Vi scrivo presto. Non vi preoccupate, lo sapete che me la so cavare.
Vi voglio bene,
Alessandro
La lettera la imbuca fuori dalla stazione di Lambrate, che è un po’ come dire da nessuna parte, almeno non sarà un indizio. Ci ha messo un francobollo della posta prioritaria, così arriverà a casa in un paio di giorni. Lui sarà bello che andato a quel punto, ma i suoi ancora non si saranno allarmati, crederanno che sia da un amico, o qualcosa del genere, come le altre volte. Gli torna in mente quando ha passato tre giorni a un rave, da qualche parte in Piemonte, e sogghigna. Ci era andato con una coppia conosciuta su un gruppo di Telegram, due scoppiati completi. Sul sedile dietro accanto a lui viaggiava un seggiolino. «È dai nonni», si era giustificata lei senza troppa convinzione. Ma a lui non fregava niente. I suoi credevano che fosse da Fabio, che non è più suo amico almeno dalla seconda media.
La prima volta che è scappato aveva quattro anni. Era all’asilo, giocava in cortile e aveva visto il cancello aperto. Allora era uscito, e se n’era andato. Tre ore dopo una tizia lo aveva notato e lo aveva portato dai carabinieri. Non sa bene cos’ha fatto in tutto quel tempo, ricorda solo lo scalpiccio continuo dei suoi passi sull’asfalto, il cuore che ne segue il ritmo, l’orgoglio per la libertà conquistata.
Questa volta non lo troveranno. Ha preso con sé quattro cose, giusto quello che riesce a infilare nello zaino di scuola, e niente di cui noteranno la mancanza: un paio di magliette e di mutande, lo spazzolino da viaggio di suo padre, che tanto non viaggia mai, un cuscino e una coperta rinvenuti in cantina, tra la roba che nessuno usa da secoli ma non si sa mai. Ha lasciato il caricatore del cellulare in bella mostra sul comodino, il cavetto a penzoloni, che sua mamma non può resistere ad arrotolarlo. Penseranno: “Ma dove vuoi che va se non può caricare il telefono?”. Tanto non lo sanno che ne ha un altro, di caricatore. E comunque il telefono lo ha spento e la sim l’ha buttata, chissà quando lo userà più.
Naturalmente ha dei soldi, un po’ nel portafoglio, un po’ infilati in un calzino, cacciato in fondo allo zaino. Tutti i suoi, che però sono poca roba. Qualche spiccio che ha raggranellato razziando gli zaini altrui, all’intervallo (più che altro monete, ma la Bertani aveva 20 euro nascosti nel diario). Un paio di pezzi dalla scatola dei contanti per le emergenze se non siamo in casa di sua madre, che tanto manco sa quanti ne tiene. Tutti i risparmi di Giacomo, dal suo nascondiglio segreto nella scatola del Cluedo (Chi è stato? Tuo fratello, con il candeliere, in camera da letto. Vabbè, il candeliere è una licenza poetica). Giacomo ha il braccino corto, non spende niente: mance della nonna, premi per la pagella, i soldi guadagnati facendo il baby-sitter alla Manuela del piano di sopra (pure il lavoro da femmine). 523 euro c’erano nella scatola. Si vuole comprare l’Xbox nuova appena esce. Ma magari mamma e papà glieli rimborsano, gli viene in mente con stizza.
«Qui ci sono i membri del clero, dagli abiti puoi riconoscere il loro ruolo, per esempio, questo è il papa, vedi che indossa la tiara?»
«Che cos’è la tiara?»
La ragazza non è tanto bella, ma nemmeno brutta. È un po’ magrolina, il seno piatto, il culo insondabile nei pantaloni larghi. Ha dei ricciolini castani lunghi appena sotto le orecchie che lo fanno pensare a un cane. Però ha un bel visino, gli occhi grandi e nocciola, le fossette quando sorride. Marina, si chiama, un nome da vecchia, ma boh, magari qua tra i monti si usa ancora. Ma poi chi cazzo se ne frega.
«È questo copricapo, è un tipo di corona, che però porta solo il papa. O meglio, la portava, dagli anni ’60 non la usano quasi più».
«Cavoli, certo che sai un sacco di cose».
La ragazza ride lusingata, ma subito solleva una mano a coprirsi la bocca. Vuol dire che è imbarazzata, l’ha studiata per bene.
«Dopo il clero sono rappresentati i laici, in ordine di importanza, prima un imperatore, poi un re…»
Smette di ascoltarla, ma si impone di tenere gli occhi incollati sull’immagine, una stampa ad alta definizione che occupa metà del tavolo. È un affresco antico in qualche chiesa sperduta tra i monti, una Danza macabra, gli ha spiegato. Non è tanto male in realtà, con tutti quegli scheletri, ma la spiegazione è noiosa, roba di chiesa. Si concentra sullo scheletro a cavallo, con l’arco e le frecce, ci potrebbe fare una maglietta, con quello, o magari un tatuaggio, quando fa i 18.
«Comunque Pinzolo è qua vicino, se hai voglia ti ci porto, uno di questi giorni».
«Figata, grazie».
Marina sta preparando la tesi, studia Storia dell’arte. «Credono tutti che finirò con le pezze al culo, ma fa niente. I miei fanno finta di no, ma lo so che lo pensano anche loro», gli ha confidato la sera prima, mentre fumavano una canna stesi nel prato davanti alla casa. Il maso è di suo zio, che è ricco sfondato: possiede un impianto sciistico e un paio di alberghi a Madonna di Campiglio. Lo ha comprato che era un rudere e lo ha fatto ristrutturare da un architetto famoso. «Uno americano, ci ha speso un sacco di soldi». L’idea era di andarci a vivere. «Ma a fine stagione si è rotto una gamba sulle piste, allora ha rimandato». Voleva assumere un custode, ma sua mamma l’ha convinto a mandarci lei. «Ché qui almeno sto tranquilla e riesco a finire la tesi. A casa mia è un casino». Marina ha tre sorelle più piccole.
«Ma non hai paura a stare qui da sola?»
«No, finché non sei arrivato tu». Lo dice ridendo, ma Alex sa che ha avuto paura davvero.
Quando è arrivato lì, tredici giorni fa, aveva pensato che il maso fosse disabitato. Nessuna luce accesa, nessun rumore, nessun’auto, nessuna cianfrusaglia in giro. Anche al crepuscolo si notava bene che era diverso dagli altri, ridipinto di fresco, tutto fighetto. Sembrava finto. C’era un cancello elettrico per le macchine, ma il resto della recinzione era basso, in legno, a scavalcarlo non ci voleva niente. Nessun cane si era fatto avanti. Alex aveva guardato l’edificio principale per un po’, quasi intimidito. Magari era allarmato. Aveva puntato verso la costruzione più piccola, che un tempo forse era la stalla, ma ora di odori di animali non se ne sentivano. La porta era aperta e come sospettava non c’erano animali in vista, solo qualche scatolone e alcuni oggetti ingombranti, accatastati ordinatamente in un angolo. C’era pure una branda da campeggio, non poteva credere alla sua fortuna. L’aveva aperta e ci si era steso sopra, con la sua coperta e il suo cuscino, e si era addormentato, di botto, come un bimbo. E così lo aveva trovato Marina, la mattina dopo.
«Vattene, vattene, vattene!»
Le urla isteriche lo svegliano. Di lei vede solo la sagoma, in controluce nel riquadro luminoso della porta aperta. Brandisce una pala.
«Vattene, vattene, vattene!»
Più che paura prova fastidio. Si solleva dalla branda.
«Se ti levi dalla porta magari», borbotta.
Poi si alza e senza fretta inizia a ripiegare il lenzuolo. Solo allora si rende conto di essere in un cazzo di casino.
La ragazza fa un passo in avanti, il badile sollevato più che può, le braccia che le tremano patetiche per lo sforzo.
Con uno sputo potrebbe ribaltarla a terra. Ha voglia di riderle in faccia, ma si concentra. Non mandare tutto a puttane.
Si siede sulla branda e si rannicchia, facendosi più piccolo che può: «Scusa scusa scusa, pensavo che non, non c’era nessuno, e non, non, sa-sapevo dove, non ho un posto dove», balbetta cercando di rendere la voce acuta.
La ragazza fa qualche altro passo verso di lui. Abbassa la pala e non trattiene un sospiro di sollievo. Prende a strofinarsi la fronte con una mano, mentre lo scruta perplessa.
«Chi sei?»
«To-Tommaso».
«Quanti anni hai?»
«19».
Le sfugge un sorriso ironico. Non se l’è bevuta. Anche meglio.
«Be’, io, io allora vado. Scu-scusa ancora».
Infila le sue cose nello zaino nervosamente e ostenta un tremore alle mani mentre si allaccia le scarpe. Lei ora lo guarda con tenerezza, come un gattino bagnato, come un uccellino caduto dal nido.
«Ma no, dai, vieni un po’ dentro, ti servirà il bagno, no?»
E così è diventato il suo uccellino caduto dal nido. Lo ha nutrito e lavato (vabbè, gli ha dato un asciugamano pulito e gli ha indicato il bagno, ma il senso è quello) e gli ha fatto il bucato. Lui in cambio le ha raccontato che il compagno di sua mamma lo riempie di botte e le ha mostrato la cicatrice sulla scapola destra (caduta da skateboard, tre anni fa, otto punti) e le bruciature di sigarette sul braccio sinistro (sfida di resistenza al dolore, due mesi fa). Lei si strofinava la fronte con la mano, senza guardarlo. Poi gli ha detto: «Puoi rimanere qui qualche giorno, se vuoi, ci sono un sacco di camere». Lui le ha detto ok, ma solo se non le dà fastidio, solo se non le fa paura, ecco. Lei ha riso.
Però poi la sera, quando sono andati a letto, l’ha sentita chiudersi a chiave.
La seconda notte si è stizzito. Magari mi chiudo anche io, che cazzo. L’ha immaginata venire di nascosto a controllarlo mentre dorme, accorgersi che la porta è bloccata e prendersi male. Poi gli è venuta un’idea migliore. Si è spogliato e si è steso sopra le lenzuola nudo. Così gliela faccio io la sorpresa. Ma poi non è successo niente, si è solo preso un freddo cane.
La terza notte dormire nella comodità di una camera da letto gli è già tornato a noia. Si è rivoltato per un paio d’ore, poi si è alzato, e ha iniziato a girare per la casa, facendosi luce con la torcia del telefono. Sposta qualche soprammobile, mescola i libri sugli scaffali. Ma quella casa sembra un museo, e si stufa presto. Arriva davanti alla camera della ragazza, avvicina l’orecchio alla porta. Ma è massiccia, non si sente neanche un sospiro. Appoggia la mano sulla maniglia, e delicatamente fa pressione. Con suo stupore la porta si schiude. Si avvicina allo spiraglio e intravede la sagoma di Marina che dorme su un fianco, raggomitolata, la mano sotto una guancia, i corti ricci arruffati. La guarda qualche istante, poi silenziosamente richiude la porta. Mi sa che qui non ci annoiamo più.
«E dopo, hai già pensato che fai?»
Alex sta mangiando latte e muesli (che schifo) al tavolo della cucina, lei è alle sue spalle che traffica, apre e chiude gli sportelli della credenza. Ostenta nonchalance, la voce è sicura, ma lui sa che è da un po’ che se la mastica quella domanda, è da quando si è alzato che gli frulla intorno come un passerotto petulante.
Il dopo è fra una settimana, quando dovranno sloggiare. Lo zio di Marina l’ha chiamata ieri, si è ripreso, e vuole prendere possesso della sua magione. Che ci fosse un dopo lo sapevano già, ma Marina pensava di tornare a Trento a settembre, quando il professore della tesi rientrava dalle ferie, e invece è il 22 di luglio, ed è già finito tutto. Quasi. Ancora una settimana.
Lui non risponde subito, assapora la sua attesa. Non la può vedere, ma non sente più rumori, ha smesso di fare qualsiasi cosa stesse fingendo di fare. Poi incassa la testa nelle spalle, inghiotte rumorosamente un boccone (che schifo) e dice: «Uh, più o meno, c’è un mio amico, a Genova, magari lo sento».
«A Genova?», non suona più così disinvolta. Per una montanara come lei, Genova è tipo dall’altra parte del mondo, tanto valeva dire Kazakistan.
Non c’è nessun amico a Genova, ovviamente. È stata l’ispirazione del momento. Lui un piano ce l’ha pronto, da un pezzo. Tre sere alla settimana la buona Marina se ne scende a Dro a fare la cameriera in una pizzeria, e lui ne approfitta per usare il suo portatile, navigando in incognito, si intende. Si è creato un profilo su Facebook, che ormai ci vanno solo i vecchi praticamente, ma vabbè, gli è tornato utile. Si è messo come foto profilo una A di anarchia, ed è entrato in un po’ di gruppi di antifa e roba simile. Ha conosciuto qualche squatter ed è stato invitato in due case occupate, una a Bologna e una a Trieste. Ma quelli di Bologna sono antispecisti, e dopo il muesli ci manca pure il seitan, quindi ha scelto Trieste. Hanno un posto dove fanno i concerti e le feste, a turno spillano la birra e chiedono il contributo all’ingresso, magari è pure divertente.
Due giorni prima è stato lì lì per andarsene. Lo zaino era già pronto, si era anche preso un paio di cosette utili (un cavatappi, un asciugamano soffice come un gatto persiano, un piccolo coltello da chef professionista con tanto di custodia). Si sarebbe alzato all’alba, sarebbe sceso fino alla casa più vicina, 500 metri più in là, avrebbe prelevato una bici dal giardino, che tanto le lasciano sempre fuori, e sarebbe sceso in paese. Da lì c’è l’autobus per la stazione di Trento.
La notte, però, quando è andato a fare il solito giro nella camera di Marina, è successo qualcosa. Un po’ alla volta le sue visite si erano fatte più audaci: prima aveva girellato per la stanza, poi si era seduto sul bordo del letto, e infine aveva provato a sfiorarle i capelli. Ma questa era l’ultima, era tempo di osare di più.
Marina dormiva su un fianco, come al solito, una spalla nuda spuntava dalla coperta. Silenziosamente si è steso accanto a lei e si è fatto sempre più vicino, fin quasi a toccarla. È rimasto così qualche minuto, poi è scivolato via. E lì se n’è accorto, non sa bene da cosa, un leggero irrigidirsi della spalla nuda quando si è allontanato, un fremito quasi impercettibile che le ha scosso i riccioli, un respiro trattenuto: era sveglia. Ha fatto finta di niente, ed è uscito dalla stanza quatto quatto, com’era entrato. Non sapeva bene cosa farsene di questa novità, ma ha deciso di rimandare la partenza, giusto di un pochino.
Marina si siede accanto a lui con in mano un biscotto, lo guarda, ma non lo mangia. Lentamente piega la testa verso la sua spalla, come se volesse poggiarla su di lui, ma si ferma appena prima.
«Quando stai a Genova posso venire a trovarti?»
La sera si danno la buonanotte in corridoio, di fronte al bagno, lei in pantaloni del pigiama e canotta blu, le braccia pudicamente incrociate sul petto, lui ancora vestito, ma coi calzini puliti. Ma è tutta una messa in scena.
Al pomeriggio l’ha portato a Pinzolo, finalmente, una gita d’addio, forse, un appuntamento, quasi. «Non puoi andare via senza averlo visto, ti ho fatto una testa tanta», è la scusa. Ma davanti alla famosa Danza macabra non ci restano che pochi minuti, lei insolitamente muta, che guarda lui invece dell’affresco, lui che finge di non accorgersene. Poi se ne vanno a zonzo, scendono fino al fiume, si tolgono le scarpe e mettono i piedi in acqua. È gelida, ma tanto fa caldo, non ha mai fatto così caldo prima, e giocano e si schizzano e ridono. Sembra la scena di qualche stupido film di Netflix, di quelli dove due si incontrano, non si sopportano, ma poi si innamorano, solo che lei ha il cancro e 45 minuti dopo schiatta.
Sulla via del ritorno prendono due pizze, le portano a casa e le mangiano guardando un reality show americano in cui due sconosciuti vanno a vivere insieme, e se dopo un mese si innamorano vincono una casa, o qualcosa del genere. Lui fa commenti sarcastici, lei ride forte.
Poi lei dice che va a letto, che domani deve riuscire ad alzarsi presto, ce la deve fare per forza, se no la tesi non la finisce più. Lui le dice che anche lui è stanco, mette un po’ a posto e poi va a dormire. Lei dice di non preoccuparsi, che possono sistemare domani mattina, lui insiste eccetera eccetera. Il copione è quello, e lo rispettano entrambi.
Dopo che si sono dati la buonanotte, Alex si lava i denti, poi va in camera e caccia lo spazzolino nello zaino. Nella stanza non c’è più segno della sua presenza, solo una maglietta e un paio di pantaloni puliti sul cassettone, piegati con cura come fa lei. All’alba se ne andrà. Si stende sul letto vestito, chiude gli occhi e si addormenta. Poche ore dopo si sveglia. Non ha bisogno di controllare l’ora, sono le tre, le tre e mezza al massimo. Si alza, e si muove furtivo, anche se non ce n’è bisogno, ma il rito è quello, e va rispettato. Arriva alla porta di Marina e con gesto ormai rodato abbassa la maniglia, senza fare rumore. È stesa a pancia in su. Quando fa un passo nella stanza, si solleva e sorride. Lo ha aspettato senza dormire? O come lui si è svegliata all’ora giusta?
«Ciao».
«Ciao».
«Vieni?»
La sente arrossire.
Lentamente sale sul letto. Lei solleva appena le braccia, come a invitarlo. Lui accoglie l’invito. Lei gli sfiora la schiena, poi appoggia le labbra alle sue. Lui porta una mano ai pantaloncini. Lei distoglie lo sguardo, però sorride. Delicatamente la fa reclinare sul letto, e sale su di lei. Lei gli mette le mani dietro al collo e lo attira a sé. Lo bacia ancora. Lui le preme il coltello nella pancia, più forte che riesce.
Cecilia Maria Farina nasce a Milano, ma vive da sempre in Brianza. Da piccola sogna di fare la scrittrice e aprire una pensione per cani. Ora è grande, ma i sogni sono gli stessi. Magari cercherà pure di farli avverare. Nell’attesa, scrive testi per le interfacce digitali.